Come in altri momenti della storia della Repubblica, i referendum voluti dalla Fiat esemplificano lo stato del Paese. Il dato più significativo, e inaspettato, è il grado di resistenza di una classe operaia che, al di là  di ogni retorica e ideologia, riesce ancora una volta a rappresentare la parte più civile e avanzata del popolo italiano. Un risultato, quello del No a Pomigliano e a Mirafiori, ottenuto grazie alla Fiom, ma reso possibile anche da una mobilitazione che ha interessato energie diverse che, nonostante la permanente latitanza della sinistra riformista, continuano a ritenere che un altro mondo sia possibile. Soltanto Vendola, Di Pietro e ciò che resta della sinistra così definita radicale, hanno avuto l’ardire di appoggiare esplicitamente la Fiom. Non è poco, ma non è moltissimo per coloro che si riconoscono nel centrosinistra.
La vicenda Fiat è la conferma della pochezza della classe dirigente italiana in tutti i suoi protagonisti politici, economici e istituzionali.
L’aggressione mediatica contro le posizioni della Fiom e della Cgil non ha prodotto il plebiscito voluto da Marchionne e dal governo dei berluscones e i peana alla scontata vittoria del Sì non riescono a nascondere il fatto che il ricatto non ha funzionato.
I vari Fassino, Chiamparino, Renzi, Veltroni e Ichino come succede loro spesso, hanno perso l’occasione per tacere: presentare la coercizione del dottor Marchionne come la modernità  da accettare senza se e senza ma, dimostra soltanto la loro subalternità  culturale alle forme meno cialtronesche del berlusconismo.
I succitati riformisti alla amatriciana ci confermano nella nostra valutazione: il PD è il problema e non la soluzione dei problemi del centrosinistra. Il Partito democratico rimane un accrocchio politico che non riesce a sfuggire alle spinte disgregatrici dei vari fondoschiena dei suoi dirigenti. La drammaticità  della situazione sta nel fatto che nel pieno della catastrofe berlusconiana, nella deriva dell’Italia intera, la maggior forza di opposizione continua a balbettare su ogni questione e su ogni questione a dividersi. Possibile che una forza politica che ha ereditato parti essenziali del consenso popolare della sinistra comunista, socialista e cattolica della stagione dei partiti di massa, non abbia la capacità  di esprimere un gruppo dirigente riconoscibile, accettabile per i comuni mortali? Che non si riesca ad andare oltre alle ambizioni dei protagonisti di sconfitte ripetute e sistematiche che durano da venti anni? Per la prossima campagna elettorale quale idea d’Italia proporranno agli italiani, la modernità  alla Marchionne o un riformismo che parte dalle esigenze del composito mondo del lavoro e della cultura democratica? Se continua a prevalere il personale come valore esclusivo, il rischio per il Pd diventa la marginalità  e l’opposizione perpetua alla destra del dopo Berlusconi.
Anche nel nostro piccolo, in Umbria, in tutti i territori in cui si svolgeranno i rinnovi delle amministrazioni locali, lo scontro personale per la sindacatura è all’ultimo sangue. Parliamo di elezioni per la riconquista di strutture pubbliche che hanno bilanci falcidiati dalle politiche tremontiane e che saranno obbligate a tagliare servizi e ad aumentare le tariffe. Ma l’angoscia nel PD sembra essere quella se il candidato a sindaco sarà  della cordata di pinco o in quella di pallino. Saranno i veltroniani a scegliere a Città  di Castello o la resistenza dei dalemiani avrà  la meglio? Avrà  successo il candidato del presidente della provincia o prevarrà  quello voluto dai bersaniani?
Il popolo assiste attonito alla straordinaria tenzone. Mentre cresce il distacco del ceto politico dalla gente comune al ridicolo sembra non esserci mai fine.
Eppure cose da discutere non mancherebbero. Certo, lascia basiti il fatto che con tutti i problemi che ha la nostra piccola comunità  siano ricominciate le guerre di religione. Ci risiamo con le radici francescane, benedettine e capitiniane dell’Umbria.
Il presidente Guasticchi, attivissimo in ogni campo, impone nello statuto dell’ente che amministra tali radicamenti.
In Regione la discussione sul rinnovo dello statuto è a buon punto: la partita sulle radici è aperta.
Noi siamo ormai stanchi di ripetere l’ovvia considerazione sulla laicità  delle istituzioni. Non crediamo che il francescanesimo, a cui va tutto il nostro rispetto e simpatia, aumenti il suo fascino attraverso il comma di una legge o di una delibera della Provincia di Perugia. Nè che l’Umbria abbia bisogno di discussioni di tale natura in una fase della storia regionale in cui ci sarebbe bisogno che le sue classi dirigenti affrontassero con competenza i nodi strutturali che rischiano di annichilirla.
Non siamo convinti che qualche miracolo ci salvi da una deriva che sta producendo nuove povertà  e che lascia le nuove generazioni senza speranze di una scuola accettabile e di un lavoro civile.
Meglio sarebbe un impegno a mettere a leva le risorse che ci sono e che non sempre vengono considerate dalle classi dirigenti che continuare in discussioni e divisioni che appassionano esclusivamente il ceto politico.

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