La recita del dissenso
È sistematico: ogni volta che si approfondisce lo scontro sul governo, il conflitto nel Pd si surriscalda. Ed è altrettanto sistematico che la minoranza dem, la sedicente sinistra interna, alzi la voce e minacci sfracelli. Per poi pentirsene e allinearsi obbediente.
I fatti, innanzi tutto. La Direzione nazionale del Pd, riunitasi venerdì 22, segue l’ennesima grave decisione della minoranza interna, quella di votare compatta in senato lo scempio della Costituzione, fornendo al governo — insieme ai senatori verdiniani — un contributo indispensabile (una ventina di voti) all’approvazione della controriforma. È stato un gesto clamoroso di sostegno al governo e al suo capo, dopo una settimana nera per Renzi, in gravi difficoltà per lo scontro politico generale sui diritti delle coppie omosessuali e per il profilarsi di qualche seria sconfitta alle prossime amministrative. Non solo. La «sinistra» del Pd ha soccorso il presidente del Consiglio proprio nel momento di massima sofferenza per lo stringersi di una micidiale tenaglia: da un lato l’attacco di Juncker per le critiche italiane all’austerità europea; dall’altro lo stillicidio di indiscrezioni e il procedere della talpa giudiziaria in merito alle vicende bancario-corruttive di Arezzo, che vedono pesantemente coinvolti pezzi del cerchio magico renziano e figure di rilievo degli entourages famigliari del ministro per le riforme e dello stesso presidente del Consiglio.
Nella riunione della direzione la minoranza ha lamentato la mancanza di «agibilità politica» nel partito, ha posto la questione del doppio ruolo del segretario-premier, che lo indurrebbe a trascurare il lavoro nel partito, e ha attaccato per i voti dei verdiniani in senato, che comportano a suo giudizio un allargamento della maggioranza incompatibile con la vocazione riformista del Pd. Come se nella maggioranza non ci fosse già Alfano. Come se, considerato il merito delle «riforme» in questione, l’alleanza con Verdini non fosse più che appropriata. Quanto al merito di una controriforma che stravolge la Costituzione cambiando di fatto la forma di governo, di questo non si è parlato, non era all’ordine del giorno. Del resto Cuperlo ha rivendicato di averla votata adducendo il fine argomento che, se anche la «riforma» è pessima, «fallire in questo tentativo produrrebbe una frattura ancora più grave tra i cittadini e le istituzioni». Perfetto. Un capolavoro di logica gesuitica che permette già di intuire come la «sinistra» del Pd si muoverà in occasione del referendum confermativo, del quale pure oggi osteggia la connotazione plebiscitaria imposta da Renzi.
Con ogni evidenza, al di là di ogni sofisma, la «sinistra» dem ha un solo problema: teme di contare domani ancora meno di oggi. Ovviamente è legittimo che se ne preoccupi. Il punto è come cerca di difendere e di rafforzare le proprie posizioni.
Che cosa fa la minoranza del Pd? Ventila «spaccature» (altre inverosimili microscissioni) e avanza timidamente, fra le righe, la richiesta di un congresso anticipato, vagheggiato come la resa dei conti in cui inverare finalmente la strategia bersaniana: riprendersi il partito; quindi, da posizioni di forza, condizionare il presidente del Consiglio.
Il punto è che a rendere improbabile questo disegno è proprio la «sinistra» dem, che ogni qual volta Renzi si trova in difficoltà evita di attaccarlo e anzi corre in soccorso del governo ogni qual volta c’è bisogno dei suoi voti. Giacché è chiaro a tutti: Renzi potrebbe accettare di andare al congresso prima del 2017 solo nel caso di una crisi di governo, proprio quella crisi di cui la «sinistra» dem, naturalmente per «senso di responsabilità», non vuole nemmeno sentir parlare.
E così, da quasi due anni a questa parte, si ripete lo stesso copione. Sussurri, grida e niente di fatto. Col risultato che, intervenendo in direzione, Renzi non ha nemmeno risposto a chi lo aveva criticato per l’intesa con Verdini chiedendo a gran voce «parole chiare» sulle strategie del partito. Ridicolizzandolo.
Come commentare tutto questo? Ci sono due possibilità: o la «sinistra» del Pd non ha ancora capito Renzi e non decifra il conflitto con lui, dal quale per questo esce sistematicamente sconfitta; oppure ha capito benissimo, e tutta questa è soltanto una commedia in cui la minoranza dem recita la propria parte in modo da non creare problemi al governo (e a se stessa) e da non perdere altri pezzi e altri voti a sinistra. Quest’ultima è senz’altro l’ipotesi più probabile, e del resto in essa vi è indubbiamente una razionalità.
I Cuperlo, gli Speranza, i Bersani salvaguardano il proprio ruolo, anche se dentro una dialettica virtuale e astratta. E, con il puntuale aiuto dei media, mantengono viva una finzione che permette ancora al Pd di presentarsi al paese, nonostante ogni evidenza, come un partito «di sinistra». Ma si tratta di una razionalità ben misera, a fronte delle conseguenze che la loro azione produce.
Al riguardo non c’è da inventarsi nulla, basta stare sobriamente all’evidenza delle cose. In poco meno di due anni il governo Renzi ha dato alla luce una sequenza di «riforme» devastanti negli assetti istituzionali della Repubblica, nel mercato e nei diritti del lavoro dipendente pubblico e privato, nella struttura materiale del welfare, nella distribuzione della ricchezza nazionale. A conti fatti, la «sinistra» del Pd ha sempre sostenuto queste scelte, a tratti recalcitrante, spesso silente, sempre al dunque ossequiosa e cooperante. Mettendo in scena un conflitto interno fine a se stesso. Mostrando in definitiva di non esserci. E dando per questa via il contributo di gran lunga più cospicuo al consolidarsi della nuova specificità italiana: quella di un paese che da tempo non annovera sulla scena politica nazionale alcuna forza credibile dalla parte dei diritti sociali e del lavoro.
Burgio Il Manifesto del 24 Gennaio 2016

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