Dallo spettro delle elezioni anticipate della scorsa settimana, a quello del rischio della guerra civile di questa settimana. In Italia è impossibile annoiarsi quando si segue la vita politica nell’era del berlusconismo trionfante. Ogni giorno c’è una novità . L’ultima è una proposta dei leghisti. Di fronte all’esplodere del ricorso alla cassa integrazione, in presenza di una spesa pubblica irrefrenabile, bisogna trovare il modo di risparmiare. Come? Semplice se in una fabbrica in cassa integrazione vi sono lavoratori extracomunitari. Per essi la cassa integrazione deve durare soltanto sei mesi mentre per i lavoratori italiani questo tetto non deve esistere. Così, Said, extracomunitario che lavora in Italia da cinque anni e per cinque anni ha pagato le tasse, non avrà  gli stessi diritti del suo collega Paolo, italiano doc. Se pensate che sia una barzelletta vi sbagliate. Si tratta di un emendamento leghista alla finanziaria in discussione in Parlamento. Indifferente al diritto internazionale e alle leggi della Repubblica, la Lega continua nel suo percorso xenofobo e razzista nel silenzio imbarazzato del resto della destra al potere. All’ultimo momento, di fronte all’indignazione del mondo cattolico e di ampi settori della società , la Lega ha ritirato l’emendamento. Il fatto rimane in ogni caso esemplare per l’ideologia che ha prodotto la proposta. Aspettiamoci altre iniziative simili. La Lega ha dalla sua il rapporto privilegiato con il Capo ed ha costruito il suo consenso attraverso la paura dell’immigrato ma forse bisogna capire quale Italia si costruisce se il lavoro dell’extracomunitario viene penalizzato. Non è solo questione di badanti. Una parte significativa del prodotto interno lordo è frutto del lavoro di mano d’opera straniera. Ed è una mistificazione sostenere che gli immigrati portano via il lavoro agli italiani. Basta pensare al settore agricolo o al lavoro nella piccola impresa del nordest. Senza la presenza di stranieri non ci sarebbe produzione perchè, è accertato, gli italiani certi lavori non sono più disponibili a farli. Inoltre, il tasso d’invecchiamento dell’Italia è tra i più alti del mondo e sarebbe peggiore senza l’apporto delle nascite di bambini e bambine non italiane. Prendiamo l’Umbria. Dalla rilevazione Istat su “Dinamica demografica e tendenze del mercato del lavoro”, emerge che tra il 2002 e il 2008 la popolazione residente in Umbria è diminuita di 13.523 abitanti in conseguenza del saldo naturale negativo. Una perdita più che compensata dal saldo migratorio che ha contribuito a far crescere la popolazione di 81.549 unità . Nel corso del solo 2008 la variazione della popolazione è stata determinata dalla somma delle seguenti voci di bilancio: il saldo del movimento naturale pari a meno 1.931 unità  e il saldo del movimento migratorio pari a più 11.703 unità . La nostra comunità  sarebbe molto più povera di risorse umane senza la presenza di tanti lavoratori non italiani. L’accoglienza non è un problema di carità  cristiana, ma esigenza decisiva se si vuole uscire dalla decadenza provocata da un modello di sviluppo travolto dalla crisi. Uno studio americano ha dimostrato che il prodotto interno lordo di quella grande nazione si modifica in positivo o in negativo in rapporto al tasso di immigrazione. Più messicani arrivano, migliore è il tasso di crescita americano. Vallo a spiegare a Calderoli! Ma per guadagnare qualche voto bisogna terrorizzare il popolo e così le campagne xenofobe segnano la vita quotidiana di un Paese che sta perdendo l’anima. Una comunità  ormai irriconoscibile? A leggere quanto scrivono molti giornali stranieri, il bel Paese attraversa una fase di gravissima crisi democratica ed è sufficiente avere la voglia di seguire un dibattito politico in TV per capire quanto siamo messi male. Il presidente Napolitano è dovuto intervenire ripetutamente per sollecitare nei leader politici comportamenti adeguati, ma l’impressione è che l’ottimo presidente ottenga dagli interessati soltanto apprezzamenti di circostanza. Le invasioni di campo continuano a farla da padrone. Eppure il da fare non mancherebbe alla classe dirigente. La crisi economica sarà  pure in miglioramento e non mancano i segnali di inversione di tendenza. Ma il tessuto produttivo continua a impoverirsi e la disoccupazione ad aumentare in tutte le aree del Paese. Anche in Umbria. La discussione che ha tanto appassionato il PD e il centrosinistra tra conservatori e innovatori, tra vecchio e nuovo, aveva poco senso nei mesi scorsi, non ne ha alcuno oggi. La crisi ha dissolto una parte consistente dei posti di lavoro creati recentemente, la disoccupazione giovanile e femminile rimane altissima e manca un quadro di riferimento per costruire un modello di sviluppo adeguato all’enormità  dei problemi causati dalla crisi globale. Il Patto per lo sviluppo tra istituzioni e forze sociali, al di là  di un bilancio che deve essere fatto, dovrà  essere ripensato alla luce della crisi della finanza pubblica e delle difficoltà  del mondo delle imprese. Non aiuta il fatto che siamo già  in campagna elettorale per le regionali e il ceto amministrativo è molto concentrato sul proprio destino. Ma può essere anche l’occasione per i partiti e per le coalizioni in campo di un bagno nella realtà  materiale vissuta dal popolo. Nei momenti di difficoltà  è esiziale restare chiusi nel recinto di partito a collocare i tasselli dell’organigramma futuro. Diviene decisiva, anche in termini elettorali, la capacità  di sollecitare le forze sociali e culturali regionali a un impegno programmatico comune. E’ forse importante scegliere bene il candidato, ma la vera sfida tra centrosinistra e centrodestra è quella tra chi riuscirà  a prospettare idee e valori con cui costruire un modello di sviluppo che non può che essere diverso da quello conosciuto. Conquistare la consapevolezza del rischio che sta correndo la tenuta sociale dell’Umbria può essere uno stimolo utile ad uscire dalle secche di una discussione tutta interna al ceto politico.

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