Riprogettiamo l’Umbria

Evidentemente, con qualche ragione, il ceto politico fa affidamento sulla scarsa memoria del popolo italiano. La discussione sulle prossime scadenze elettorali rientra nella categoria della mistificazione come metodo. Il centrosinistra ha sempre sostenuto la tesi dell’accorpamento delle elezioni anche al fine di evitare spreco di soldi. Il centrodestra ha sempre combattuto ogni ipotesi del genere. Addirittura denunciando l’attentato alla democrazia se alle elezioni politiche del 2006, svolte l’otto e il nove aprile, si fosse permesso il voto per il referendum costituzionale. Berlusconi e soci fissarono il voto per il referendum per il 25 e 26 giugno. Meno di tre mesi dopo. Costo di circa 400milioni di Euro. Certamente le elezioni per rinnovare i consigli regionali di Lazio e Lombardia, sciolti alla fine di settembre, hanno una certa urgenza, anche considerando che i consiglieri decaduti continueranno ad avere le indennità fino all’elezione del nuovo consiglio. La signora Polverini e il signor Formigoni restano presidenti per la normale amministrazione fino all’elezione dei nuovi presidenti. Mesi e mesi di paralisi amministrativa che non fanno certo bene alla democrazia né alla spesa pubblica. Sembrerebbe urgente svolgere la tornata elettorale per le due istituzioni, ma nel Paese che produce più leggi al mondo, manca una legge che disciplina le scadenze elettorali per tutti gli enti elettivi in caso di crisi. Ogni presidente decide a sua convenienza. L’autonomia statutaria garantisce, dicono Formigoni e Polverini. La modifica del titolo quinto della Costituzione? Un disastro che rischia di rendere popolare e legittima la spinta a un nuovo centralismo e svuota di forza politica ogni protesta per i tagli alle autonomie locali. Forse nei programmi elettorali una riflessione su quella modifica costituzionale sarebbe utile che ci fosse, ma per adesso d’idee per il futuro non si parla. Non si parla nemmeno di quale Italia le diverse forze politiche vorrebbero ricostruire dopo il cataclisma prodotto dal berlusconismo diffuso a destra e a manca. L’impressione che la politica, in generale, vada da una parte e la realtà da un’altra. Mondi separati. Berlusconi ha decretato che il governo dei tecnici è stato un fallimento. Esagerato come sempre dimentica che Monti è divenuto capo del governo, quale ultima chance di una nazione considerata, a ogni latitudine, inaffidabile proprio a causa del governo Berlusconi, Tremonti, Bossi. In onesta bisogna però prendere atto che se il governo dei tecnici è riuscito a recuperare attendibilità internazionale, Monti e i suoi ministri non sono riusciti ad attivare meccanismi di un nuovo sviluppo. E’ poco un anno per risolvere problemi frutto di decenni di cattiva politica e di un ceto dirigente complessivamente inadeguato in molti settori? Forse sì, ma di fronte al tracollo delle condizioni di vita di parti vaste della popolazione la priorità doveva essere quella di innescare meccanismi di contrasto alla precarizzazione del lavoro e alla deindustrializzazione del Paese. Si è invece scelto di tagliare sul welfare, sulla scuola e sui servizi pubblici in genere. Possibile che, nonostante tutte le controprove, si continui con una politica dell’austerità riservata ai soliti ceti? Non funziona. E’ un abbaglio ideologico. Lo dicono in molti: senza investimenti pubblici nell’economia e nell’innovazione non si crea nuova ricchezza e nuovo lavoro. Di fronte alla crisi dell’auto, l’amministrazione americana è intervenuta massicciamente con finanziamenti che hanno consentito il rilancio del settore. Ne sa qualcosa Marchionne. Che cosa ha prodotto la riforma del mercato del lavoro della loquace Fornero? Nulla di più che un incremento della cassa integrazione e della disoccupazione giovanile. Aver mantenuto in vita quarantasette tipologie di contratto ha reso più flessibile l’uscita e meno probabile l’ingresso di donne e di giovani nel lavoro stabilizzato. Se ne potrebbe prendere atto? La tenuta sociale è a rischio e si vede dalle migliaia di manifestazioni che si svolgono in tutta Italia. L’Umbria ha subito una catastrofe “naturale” che rende ancora più precaria la sua economia. Rischiamo di tornare a essere sempre più la regione più al nord del meridione impoverito e sempre meno la regione più a sud del nord sviluppato. Per gli amministratori locali non sarà facile trovare la strada per impedirlo. Siamo una comunità piccola in cui convivono aree di sottosviluppo e zone di eccellenza. Complessivamente non abbiamo risorse proprie sufficienti a rendere autonomo il nostro sviluppo. Ed è per questo che abbiamo cercato sempre di utilizzare al meglio le risorse messe a disposizione dalla comunità europea. Risorse che vanno però scemando di anno in anno. Le multinazionali presenti in Umbria risentono dei problemi posti dalla globalizzazione dell’economia; la piccola impresa subisce la crisi dei committenti e spesso per mancanza di credito sono costrette alla chiusura. Il tracollo della domanda pubblica, unito alla difficoltà nei pagamenti ai fornitori è un altro grave fattore di crisi. E’ ripreso un processo di emigrazione. Non più la valigia di cartone, ma è lo zaino con il computer che accompagna verso il nord tanti giovani laureati umbri. Che fare? Responsabilità della classe dirigente è quella di riprogettare una nuova Umbria. Ciò riguarda la politica, spetta al ceto produttivo, è responsabilità anche delle forze culturali. Umbria regione dell’Europa, ma anche una comunità che salvaguarda le sue autonomie, innovandole. Mettere a leva tutte le energie per progettare un nuovo modo di produrre ricchezza e lavoro è la responsabilità primaria della politica, della buona politica.
Corriere dell’Umbria 18 novembre 2012

Riprogettiamo l’Umbria

Evidentemente, con qualche ragione, il ceto politico fa affidamento sulla scarsa memoria del popolo italiano. La discussione sulle prossime scadenze elettorali rientra nella categoria della mistificazione come metodo. Il centrosinistra ha sempre sostenuto la tesi dell’accorpamento delle elezioni anche al fine di evitare spreco di soldi. Il centrodestra ha sempre combattuto ogni ipotesi del genere. Addirittura denunciando l’attentato alla democrazia se alle elezioni politiche del 2006, svolte l’otto e il nove aprile, si fosse permesso il voto per il referendum costituzionale. Berlusconi e soci fissarono il voto per il referendum per il 25 e 26 giugno. Meno di tre mesi dopo. Costo di circa 400milioni di Euro. Certamente le elezioni per rinnovare i consigli regionali di Lazio e Lombardia, sciolti alla fine di settembre, hanno una certa urgenza, anche considerando che i consiglieri decaduti continueranno ad avere le indennità  fino all’elezione del nuovo consiglio. La signora Polverini e il signor Formigoni restano presidenti per la normale amministrazione fino all’elezione dei nuovi presidenti. Mesi e mesi di paralisi amministrativa che non fanno certo bene alla democrazia nè alla spesa pubblica. Sembrerebbe urgente svolgere la tornata elettorale per le due istituzioni, ma nel Paese che produce più leggi al mondo, manca una legge che disciplina le scadenze elettorali per tutti gli enti elettivi in caso di crisi. Ogni presidente decide a sua convenienza. L’autonomia statutaria garantisce, dicono Formigoni e Polverini. La modifica del titolo quinto della Costituzione? Un disastro che rischia di rendere popolare e legittima la spinta a un nuovo centralismo e svuota di forza politica ogni protesta per i tagli alle autonomie locali. Forse nei programmi elettorali una riflessione su quella modifica costituzionale sarebbe utile che ci fosse, ma per adesso d’idee per il futuro non si parla. Non si parla nemmeno di quale Italia le diverse forze politiche vorrebbero ricostruire dopo il cataclisma prodotto dal berlusconismo diffuso a destra e a manca. L’impressione che la politica, in generale, vada da una parte e la realtà  da un’altra. Mondi separati. Berlusconi ha decretato che il governo dei tecnici è stato un fallimento. Esagerato come sempre dimentica che Monti è divenuto capo del governo, quale ultima chance di una nazione considerata, a ogni latitudine, inaffidabile proprio a causa del governo Berlusconi, Tremonti, Bossi. In onesta bisogna però prendere atto che se il governo dei tecnici è riuscito a recuperare attendibilità  internazionale, Monti e i suoi ministri non sono riusciti ad attivare meccanismi di un nuovo sviluppo. E’ poco un anno per risolvere problemi frutto di decenni di cattiva politica e di un ceto dirigente complessivamente inadeguato in molti settori? Forse sì, ma di fronte al tracollo delle condizioni di vita di parti vaste della popolazione la priorità  doveva essere quella di innescare meccanismi di contrasto alla precarizzazione del lavoro e alla deindustrializzazione del Paese. Si è invece scelto di tagliare sul welfare, sulla scuola e sui servizi pubblici in genere. Possibile che, nonostante tutte le controprove, si continui con una politica dell’austerità  riservata ai soliti ceti? Non funziona. E’ un abbaglio ideologico. Lo dicono in molti: senza investimenti pubblici nell’economia e nell’innovazione non si crea nuova ricchezza e nuovo lavoro. Di fronte alla crisi dell’auto, l’amministrazione americana è intervenuta massicciamente con finanziamenti che hanno consentito il rilancio del settore. Ne sa qualcosa Marchionne. Che cosa ha prodotto la riforma del mercato del lavoro della loquace Fornero? Nulla di più che un incremento della cassa integrazione e della disoccupazione giovanile. Aver mantenuto in vita quarantasette tipologie di contratto ha reso più flessibile l’uscita e meno probabile l’ingresso di donne e di giovani nel lavoro stabilizzato. Se ne potrebbe prendere atto? La tenuta sociale è a rischio e si vede dalle migliaia di manifestazioni che si svolgono in tutta Italia. L’Umbria ha subito una catastrofe “naturale” che rende ancora più precaria la sua economia. Rischiamo di tornare a essere sempre più la regione più al nord del meridione impoverito e sempre meno la regione più a sud del nord sviluppato. Per gli amministratori locali non sarà  facile trovare la strada per impedirlo. Siamo una comunità  piccola in cui convivono aree di sottosviluppo e zone di eccellenza. Complessivamente non abbiamo risorse proprie sufficienti a rendere autonomo il nostro sviluppo. Ed è per questo che abbiamo cercato sempre di utilizzare al meglio le risorse messe a disposizione dalla comunità  europea. Risorse che vanno però scemando di anno in anno. Le multinazionali presenti in Umbria risentono dei problemi posti dalla globalizzazione dell’economia; la piccola impresa subisce la crisi dei committenti e spesso per mancanza di credito sono costrette alla chiusura. Il tracollo della domanda pubblica, unito alla difficoltà  nei pagamenti ai fornitori è un altro grave fattore di crisi. E’ ripreso un processo di emigrazione. Non più la valigia di cartone, ma è lo zaino con il computer che accompagna verso il nord tanti giovani laureati umbri. Che fare? Responsabilità  della classe dirigente è quella di riprogettare una nuova Umbria. Ciò riguarda la politica, spetta al ceto produttivo, è responsabilità  anche delle forze culturali. Umbria regione dell’Europa, ma anche una comunità  che salvaguarda le sue autonomie, innovandole. Mettere a leva tutte le energie per progettare un nuovo modo di produrre ricchezza e lavoro è la responsabilità  primaria della politica, della buona politica.
Corriere dell’Umbria 18 novembre 2012

La lezione di Barack Obama

Primo messaggio post elettorale di Barack Obama: la situazione del Paese è tale da richiedere più sacrifici, ma non per tutta la popolazione, piuttosto dovranno essere i più ricchi a sostenerli. Chi come me guadagna più di 250mila dollari l’anno, deve pagare di più, ha detto nel suo discorso il presidente statunitense. La questione di chi dovrà  pagare la crisi è il primo punto dell’agenda dell’amministrazione americana. Gli italiani, in genere, apprezzano molto ciò che proviene dagli Usa. Chissà  se anche i tecnici al governo riserveranno qualche attenzione alla linea di equità  indicata dal presidente Obama. A oggi ciò che risulta evidente è una linea che tende a restringere in tutti i comparti la spesa pubblica, abbassando alla grande la qualità  dei servizi al cittadino. Sanità , trasporti pubblici, scuola, trasferimenti alle autonomie locali, sono le vittime sacrificali per raggiungere il pareggio di bilancio. La lotta agli sprechi è ovviamente ineluttabile se si vogliono trovare le risorse per una nuova fase di sviluppo e nello stesso tempo innovare una struttura burocratica spesso inefficace e anchilosata. Riconsiderare i livelli di governo è cosa saggia se si vuole facilitare il rapporto dei cittadini con la macchina pubblica e rifondare la politica dei partiti. Tutto ciò andrebbe fatto, però, con qualche intelligenza e non usando l’accetta. Ad esempio, togliere altre risorse al servizio sanitario può comportare un impoverimento irreversibile della sanità  pubblica. E poi che succede? Il mercato ci salverà ? I tecnici al governo dovrebbero sapere che le statistiche dell’organizzazione mondiale della sanità  confermano che la sanità  privata costa enormemente di più di quella pubblica. Costa troppo la sanità  italiana? No, costa meno di quello medio europeo. I conti di quella umbra sono certificati come in ordine. Anche da noi si avverte già  da qualche tempo che i tagli del governo stanno incidendo in modo rilevante sulla qualità  del servizio sanitario della nostra regione. Molti medici di grande qualità  ci hanno lasciato per altri lidi. Negli ospedali le attese e le file crescono e il mercato non sembra salvarci dal declino. Se il democratico Obama intende chiedere un sacrificio ai ricchi perchè in Italia i sacrificati sono soltanto i meno abbienti? Perchè siamo portati a imitare gli aspetti peggiori degli Usa e non le scelte di civiltà  di quella grande nazione? La pressione fiscale nel nostro Paese ha raggiunto livelli preoccupanti, è vero. E’ anche vero che oltre agli evasori vi sono ricchezze appena sfiorate dal fisco che anche il governo Monti sembra voler salvaguardare. Che bello sarebbe sapere ciò che pensano i partiti al riguardo. Invece ci tocca seguire le lotte intestine di quasi tutte le formazioni politiche. Siano esse partiti di plastica o movimenti emergenti o partiti strutturati, non c’è un’area che non sia attraversata da aspre contese personali o di gruppo. Il crollo della prima repubblica è stato, al confronto con il crollo della seconda, un balletto tra educande. La notizia della settimana è stata quella del primo vagito di Alfano, finalmente segretario del PDL e non più soltanto portavoce del Capo. Il partito della libertà  avrà  anch’esso le sue primarie. Non si ha notizia delle norme che regoleranno la tenzone. Certo non mancheranno eccellenti candidati ma molti temono che se il risultato non sarà  apprezzabile, il Capo ne inventerà  una delle sue. Berlusconi ha promesso che, invece del coniglio, estrarrà  dal solito cilindro un dinosauro. Ottimo e abbondante. Nel movimento emergente dei grillini scattano giornalmente le scomuniche contro coloro che si azzardano ad alzare il dito per chiedere la parola. I talk show sono stati lo strumento della banalizzazione della politica e la loro frequentazione ha prodotto diversi mostri. Al riguardo non ho alcun dubbio. Rimane misterioso perchè l’unico autorizzato a fare politica attraverso lo spettacolo debba essere il Capo. La fatwa contro la consigliera comunale di Bologna aderente al Movimento cinque stelle ha del surreale e conferma il dubbio che quella di Grillo sia un’aggregazione politica in cui prevale il monologo di un leader inossidabile nelle sue certezze ma incapace di ascoltare le ragioni degli altri. Se Grillo può essere considerato il Re dei rottamatori, il sindaco di Firenze può ambire a un buon titolo nobiliare nella stessa casata. La sua campagna per le primarie del PD si svolge ormai da settimane negli studi televisivi, in teatri e contenitori pieni di popolo festante. Ogni tanto, succede a tutti, dice cose non esatte. Ad esempio ha accusato il competitor Vendola di essere lui responsabile della caduta del governo Prodi. Basta sfogliare i giornali dell’epoca per sapere che fu il ruggente ministro Mastella (democristiano d’antan) a provocare la fine dell’esperienza Prodi. Approfondendo, Renzi forse ricorderebbe che Mastella fece l’operazione il giorno dopo che Veltroni asserì che il suo PD avrebbe corso da solo nelle prossime elezioni. L’allora segretario era convinto di poter ottenere la maggioranza. Poi il PD non corse da solo, aggregò soltanto Di Pietro. E andò come andò, malissimo. Ben prima il prode Mastella cambiò casacca e Prodi si dimise. Vendola non ebbe responsabilità  alcuna. Interessante apprendere che il PD di Renzi sarebbe un partito del 40 per cento dei voti e per questo anche il sindaco di Firenze annuncia che se vince lui le primarie non farà  nessuna alleanza nè con Casini nè con Vendola e manderà  a casa chi ha perso. Sono affascinanti davvero questi personaggi che non hanno dubbi mai. Il sindaco fan dei democratici americani dovrebbe sapere che anche il rispetto per gli avversari e non raccontare balle è parte della buona politica.
Corriere dell’Umbria 11 novembre 2012

Aspettando la terza repubblica

Osservatori e opinionisti sembrano festeggiare la fine di quei partiti personali che hanno segnato l’ultimo ventennio della politica italiana. La seconda repubblica è morta, ci dicono, la terza non si sa quando e come nascerà . Non troveremo più nelle schede elettorali il nome del “capo” candidato a primo ministro? Ancora non si sa. I partiti non sembrano trovare un accordo per modificare il “porcellum” e senza cambiare la legge elettorale indicare il candidato leader è obbligo di legge. Se così sarà , troveremo una lista che contiene il simbolo del Movimento Cinque Stelle e il nome di Grillo. Il capo politico del Movimento, primo partito in Sicilia, si appresta a incassare ciò per cui ha lavorato con determinazione da molti anni: la scomparsa di un ceto politico che ha portato il Paese al disastro attuale. Proprio a conferma che non sempre osservatori e opinionisti della politica sanno di cosa parlano, il partito personale si ripropone magari in forme differenti. C’è una diversità  tra il padre padrone del PDL, Berlusconi, e il comico genovese? Sì, profonda. Il primo è sceso in campo per difendere le proprie aziende dal comunismo rampante. L’uomo di Arcore ha vinto ripetutamente aggregando pezzi di ceto politico di ogni colore e di ogni prezzo, intellettuali accecati dall’odio per la sinistra e da ultimo, cortigiani maschili e femminili che con la politica non avevano il minimo rapporto. Peppe Grillo ha scelto di giocare la partita della politica mobilitando forze diverse che convergono nella critica forte e spesso motivata all’establishment. I candidati del Movimento Cinque Stelle sono tutti giovani che non hanno mai avuto ruoli politici o amministrativi. Presto dire se sapranno fornire buona prova, ma certo si presentano come la novità  di questa stagione politica. Non ritengo corretto riportare il successo del Movimento alle sole capacità  mediatiche del “capo politico” e dei suoi spin doctor. L’imbarbarimento dell’agire politico di tanti protagonisti della stagione berlusconiana legittima un’indignazione che, non avendo trovato nei partiti tradizionali alcuna capacità  di riforma, prende la strada o dell’astensione dal voto e dall’impegno politico. Altro significato ha il consenso per chi propone un altro modo di esercitare l’azione politica come risultano gli uomini e le donne del Movimento. Certo l’offerta pubblica d’acquisto esercitata da Grillo sull’IDV dell’onorevole Di Pietro qualche turbamento sembra provocarlo all’interno del Movimento Cinque Stelle. Se è vero che formalmente il simbolo dell’IDV rientra tra le proprietà  di Di Pietro, è anche vero che questo partito esprime ormai sindaci, amministratori, parlamentari di ottima qualità  che non potrebbero accettare il disfacimento. Voleranno stracci purtroppo, ma anche queste implosioni fanno parte della crisi della democrazia italiana. Una democrazia in affanno a ogni livello. Il governo Monti resta convinto che il suo appeal rimane buono nonostante che i sacrifici imposti al popolo non sembrano produrre quegli effetti positivi sulla crisi del Paese. Monti resta convinto, anche Lui studia i sondaggi, che dalla sua ha l’appoggio della maggioranza del popolo italiano. E’ noto che i sondaggi in genere durano lo spazio di un mattino, poi c’è la realtà . E questa ci dice che l’apatia sta montando in strati sempre più vasti della popolazione. Quando il cinquantadue per cento di una regione importante diserta le urne, l’allarme per il deteriorarsi del rapporto cittadino con la politica diviene drammatico. A molti, anche al sottoscritto, è sembrato eccessivo il giudizio entusiasta di Bersani per il risultato elettorale della Sicilia. Aver eletto presidente un’ottima persona come Crocetta non può far dimenticare a Bersani la massiccia perdita di voti del PD e la mancanza di una maggioranza nell’assemblea siciliana. L’enorme dato dell’astensione doveva sollecitare maggior prudenza nel giudizio. Si può legittimamente sostenere che il non voto è una sorta di modernizzazione dell’Italia. Nei Paesi anglosassoni sono ormai decenni che la maggioranza del popolo non partecipa al rito democratico del voto. Il presidente degli Stati Uniti è sempre eletto da una minoranza degli elettori. Il “grande” Tony Blair era votato da meno del trenta per cento degli aventi diritto al voto. E’ questa una modernizzazione molto rischiosa. In un momento in cui le sacche di disoccupazione divengono un fiume inarrestabile, le possibilità  di un collasso democratico aumentano. Accertato che per la classe dirigente italiana la storia non è per nulla maestra di vita, rileggere ciò che ha portato alla nascita del fascismo e poi del nazismo, sarebbe cosa utile. Il regime democratico non è dato per sempre. Una democrazia vive d’istituzioni che funzionano. La fase che viviamo vede tutta la struttura pubblica in crisi. Lo sono le autonomie locali, lo sono gli enti regionali ormai incapaci di svolgere un ruolo per alleviare le difficoltà  dei loro amministrati. Un disastro non provocato da catastrofi naturali. Ma causato dalle scelte dei governi centrali ormai da qualche decennio. Abbattere i costi della politica è sacrosanto e qualsiasi resistenza del ceto politico deve essere denunciata e battuta. Non è per nulla apprezzabile l’azione del governo quando annichilisce e non valorizza l’autonomia locale a vantaggio di un centralismo che storicamente ha dimostrato di essere la vera limitazione alla modernizzazione dell’Italia. La storia del nostro Paese è storia di comuni e di comunità  locali. Quando il governo in nome della lotta agli sprechi non permette di funzionare nemmeno alle amministrazioni periferiche che non sprecano un Euro, sbaglia alla grande. Monti riuscirà  anche a pareggiare il bilancio dello Stato, ma allontana il Paese da qualsiasi prospettiva positiva.
Corriere dell’Umbria 4 novembre 2012