Turreno, è finita una storia

Non esistono scorciatoie e le semplificazioni non servono. Il problema è come approfondire la conoscenza dei processi economici, sociali e culturali che hanno determinato lo stato del centro storico di Perugia. Forse più corretto sarebbe parlare dei problemi della città vecchia intesa come quel complesso dei borghi che supportano il centro. Con un’avvertenza: lo svuotamento dei centri storici è stato un lungo processo che ha riguardato gran parte dell’Italia e dell’Europa. Il modello di sviluppo incentrato sul trasporto privato e sulle aree “dedicate”, ha comportato una crescita che, anche quando non caotica (e non è il caso di Perugia), assegna ai centri storici principalmente la funzione di attrazione turistica e di “vetrine” commerciali per i grandi gruppi dell’industria della moda e di altri settori dell’economia di valenza nazionale o internazionale. Spazi per il piccolo commercio nelle aree pregiate della città ne rimangono pochi. Anche senza avere nessun pregiudizio ideologico, e non è il mio caso, nei confronti della rendita immobiliare non si può non intuire che il costo degli affitti per un’attività commerciale nella così detta acropoli, è tale da rendere problematica la sopravvivenza di chi non è in franchising. Una banale passeggiata per le strade che si congiungono a Corso Vannucci, e si ha l’impressione dell’impoverimento delle attività. Gli esperti pensano che il mercato sarà in grado di aggiustare il tutto: abbassandosi la domanda, il costo degli affitti si adeguerà. E’ possibile. Da molti anni, però, la quantità di locali vuoti è in aumento e i rentier non sembrano seguire le “leggi” del mercato. Di certo una questione di costo degli affitti c’è, ma non è l’unico problema. Un compagno carissimo, mi ha detto che in Porta Sant’Angelo vivono trentasei famiglie e il resto delle abitazioni o vuote o occupate da qualche studente italiano o straniero. Nella mia giovinezza in Corso Garibaldi i bambini erano così numerosi che si confrontavano due squadre di calcio giovanili e le strade erano piene delle loro grida. C’erano le sedi di diversi partiti e alla messa di Sant’Agostino, la domenica, i fedeli riempivano ogni spazio della chiesa. Nell’area del Carmine, Via della Viola, ecc., nonostante lo sforzo di giovani imprenditori che hanno aperto bar e ristoranti, continua l’esodo di abitanti. Anche l’ultimo fruttivendolo ha chiuso. Abbiamo appreso di un piano per il rilancio del centro che affronta dal punto di vista commerciale la questione. Annunciata la possibilità di trasformare il Cinema Turreno anche in un’area di commercio e si rende possibile l’apertura di spazi per nuove attività di vendita di abbigliamento in altre aree del centro. Si crede che il problema centrale sia l’offerta commerciale? Non sono un esperto, lo riconosco, domando a chi esperto è: perché il supermercato “storico”, il mercato coperto, non ha avuto successo e i diversi progetti di ristrutturazione non hanno avuto fortuna? Non sarà che il problema decisivo, anche per le attività di commercio, sia stato l’esodo di abitanti e di tutti i centri direzionali dall’acropoli? Senza una comunità che abita nei borghi e nella città “vecchia”, non servono a nulla né gli eventi né favorire l’arrivo di nuovi loghi al centro di Perugia. Intendiamoci. Molte delle iniziative culturali portate avanti dalle amministrazioni pubbliche o dalla vivace rete di organizzazioni culturali private, sono di eccellente qualità. Ma ciò se è molto apprezzabile, non è sufficiente. La stessa proposta commerciale del centro storico può essere riqualificata. Ma come? Potete immaginare un’abitante di Madonna Alta che viene a fare la spesa all’ex Cinema Turreno per acquistare gli stessi prodotti che si possono trovare nei cento supermercati sparsi da Bastia a Corciano? Senza una politica amministrativa di lungo respiro che consenta il ritorno di residenti, non c’è speranza d’invertire la tendenza al degrado. Una settimana fa è stato chiuso uno dei caffè storici di Perugia, il Caffè Turreno. E’ stato detto che si tratta di un’attività imprenditoriale che è andata male. Peccato. Per me, che ho frequentato quel luogo per cinquantadue anni, la cosa ha altro significato. Non sono il solo: chi pensa che il futuro di una comunità si costruisca anche attraverso la difesa dei luoghi della memoria collettiva, ritiene che la chiusura del Turreno non sia soltanto il fallimento di un’attività commerciale. Quel luogo rimanda a una storia della vita democratica della città che è sbagliato ricondurre alla sola sinistra comunista. In quel caffè ho incontrato cattolici e socialisti, ma anche chi non aveva alcuna affinità politica con i “rossi” trovava il modo di dare un consiglio, di suggerire un libro da leggere o di avvertire sulle cose sbagliate che la sinistra faceva. Renato Locchi ha ragione nel ricordare come fosse naturale interloquire con un grande intellettuale o offrire da bere al “capo” venuto da Roma. Quando Michele Gargiulo, il vecchio proprietario, ti guardava con rimprovero per un atteggiamento settario, abbassavi gli occhi e chiedevi scusa. Mario, il figlio, era il primo a leggere l’Unità, così sapevi subito qual’era la linea del partito. Quando arrivava Ilvano Rasimelli o Gino Galli, ascoltavi le loro argomentazioni e/o i loro scontri sulla “linea” di Togliatti o Berlinguer. Nelle tenzoni del sessantotto la cosa più normale era un tavolo dove sedeva un dirigente del PCI, un’extraparlamentare e un cattolico del dissenso che discutevano animatamente ma con il massimo rispetto. L’anarchico Brenno Tilli, una delle figure più creative di Perugia, fu convinto a votare per la prima volta nel 1970. Si votava per il primo consiglio regionale. Si poteva contribuire a eleggere Pietro Conti a presidente. Il nostro entusiasmo trascinò al voto anche il vecchio anarchico. Il primo luogo dove portavi il figlio era il Caffè Turreno. Un gelato da Michele era garantito. Episodi, piccole storie forse. La nostalgia è un fatto personale, ma quando Vittorio Gargiulio mi ha informato della chiusura, ho sentito che una storia era finita. Non sempre il nuovo che avanza è migliore del passato. Per questo la nostalgia diviene a volte una salutare medicina.
Corriere dell’Umbria 23 settembre 2012

Turreno, è finita una storia

Non esistono scorciatoie e le semplificazioni non servono. Il problema è come approfondire la conoscenza dei processi economici, sociali e culturali che hanno determinato lo stato del centro storico di Perugia. Forse più corretto sarebbe parlare dei problemi della città  vecchia intesa come quel complesso dei borghi che supportano il centro. Con un’avvertenza: lo svuotamento dei centri storici è stato un lungo processo che ha riguardato gran parte dell’Italia e dell’Europa. Il modello di sviluppo incentrato sul trasporto privato e sulle aree “dedicate”, ha comportato una crescita che, anche quando non caotica (e non è il caso di Perugia), assegna ai centri storici principalmente la funzione di attrazione turistica e di “vetrine” commerciali per i grandi gruppi dell’industria della moda e di altri settori dell’economia di valenza nazionale o internazionale. Spazi per il piccolo commercio nelle aree pregiate della città  ne rimangono pochi. Anche senza avere nessun pregiudizio ideologico, e non è il mio caso, nei confronti della rendita immobiliare non si può non intuire che il costo degli affitti per un’attività  commerciale nella così detta acropoli, è tale da rendere problematica la sopravvivenza di chi non è in franchising. Una banale passeggiata per le strade che si congiungono a Corso Vannucci, e si ha l’impressione dell’impoverimento delle attività . Gli esperti pensano che il mercato sarà  in grado di aggiustare il tutto: abbassandosi la domanda, il costo degli affitti si adeguerà . E’ possibile. Da molti anni, però, la quantità  di locali vuoti è in aumento e i rentier non sembrano seguire le “leggi” del mercato. Di certo una questione di costo degli affitti c’è, ma non è l’unico problema. Un compagno carissimo, mi ha detto che in Porta Sant’Angelo vivono trentasei famiglie e il resto delle abitazioni o vuote o occupate da qualche studente italiano o straniero. Nella mia giovinezza in Corso Garibaldi i bambini erano così numerosi che si confrontavano due squadre di calcio giovanili e le strade erano piene delle loro grida. C’erano le sedi di diversi partiti e alla messa di Sant’Agostino, la domenica, i fedeli riempivano ogni spazio della chiesa. Nell’area del Carmine, Via della Viola, ecc., nonostante lo sforzo di giovani imprenditori che hanno aperto bar e ristoranti, continua l’esodo di abitanti. Anche l’ultimo fruttivendolo ha chiuso. Abbiamo appreso di un piano per il rilancio del centro che affronta dal punto di vista commerciale la questione. Annunciata la possibilità  di trasformare il Cinema Turreno anche in un’area di commercio e si rende possibile l’apertura di spazi per nuove attività  di vendita di abbigliamento in altre aree del centro. Si crede che il problema centrale sia l’offerta commerciale? Non sono un esperto, lo riconosco, domando a chi esperto è: perchè il supermercato “storico”, il mercato coperto, non ha avuto successo e i diversi progetti di ristrutturazione non hanno avuto fortuna? Non sarà  che il problema decisivo, anche per le attività  di commercio, sia stato l’esodo di abitanti e di tutti i centri direzionali dall’acropoli? Senza una comunità  che abita nei borghi e nella città  “vecchia”, non servono a nulla nè gli eventi nè favorire l’arrivo di nuovi loghi al centro di Perugia. Intendiamoci. Molte delle iniziative culturali portate avanti dalle amministrazioni pubbliche o dalla vivace rete di organizzazioni culturali private, sono di eccellente qualità . Ma ciò se è molto apprezzabile, non è sufficiente. La stessa proposta commerciale del centro storico può essere riqualificata. Ma come? Potete immaginare un’abitante di Madonna Alta che viene a fare la spesa all’ex Cinema Turreno per acquistare gli stessi prodotti che si possono trovare nei cento supermercati sparsi da Bastia a Corciano? Senza una politica amministrativa di lungo respiro che consenta il ritorno di residenti, non c’è speranza d’invertire la tendenza al degrado. Una settimana fa è stato chiuso uno dei caffè storici di Perugia, il Caffè Turreno. E’ stato detto che si tratta di un’attività  imprenditoriale che è andata male. Peccato. Per me, che ho frequentato quel luogo per cinquantadue anni, la cosa ha altro significato. Non sono il solo: chi pensa che il futuro di una comunità  si costruisca anche attraverso la difesa dei luoghi della memoria collettiva, ritiene che la chiusura del Turreno non sia soltanto il fallimento di un’attività  commerciale. Quel luogo rimanda a una storia della vita democratica della città  che è sbagliato ricondurre alla sola sinistra comunista. In quel caffè ho incontrato cattolici e socialisti, ma anche chi non aveva alcuna affinità  politica con i “rossi” trovava il modo di dare un consiglio, di suggerire un libro da leggere o di avvertire sulle cose sbagliate che la sinistra faceva. Renato Locchi ha ragione nel ricordare come fosse naturale interloquire con un grande intellettuale o offrire da bere al “capo” venuto da Roma. Quando Michele Gargiulo, il vecchio proprietario, ti guardava con rimprovero per un atteggiamento settario, abbassavi gli occhi e chiedevi scusa. Mario, il figlio, era il primo a leggere l’Unità , così sapevi subito qual’era la linea del partito. Quando arrivava Ilvano Rasimelli o Gino Galli, ascoltavi le loro argomentazioni e/o i loro scontri sulla “linea” di Togliatti o Berlinguer. Nelle tenzoni del sessantotto la cosa più normale era un tavolo dove sedeva un dirigente del PCI, un’extraparlamentare e un cattolico del dissenso che discutevano animatamente ma con il massimo rispetto. L’anarchico Brenno Tilli, una delle figure più creative di Perugia, fu convinto a votare per la prima volta nel 1970. Si votava per il primo consiglio regionale. Si poteva contribuire a eleggere Pietro Conti a presidente. Il nostro entusiasmo trascinò al voto anche il vecchio anarchico. Il primo luogo dove portavi il figlio era il Caffè Turreno. Un gelato da Michele era garantito. Episodi, piccole storie forse. La nostalgia è un fatto personale, ma quando Vittorio Gargiulio mi ha informato della chiusura, ho sentito che una storia era finita. Non sempre il nuovo che avanza è migliore del passato. Per questo la nostalgia diviene a volte una salutare medicina.
Corriere dell’Umbria 23 settembre 2012

Crisi: promesse e soluzioni

Sembra passato un secolo e invece era il 2010 quando il geniale Marchionne annunciava il progetto di “Fabbrica Italia” per la FIAT del futuro. Grazie a questa promessa, ottenne la fine del contratto nazionale e impose ai suoi dipendenti l’accettazione di clausole contrattuali capestro. Espulsa la Fiom dalle rappresentanze sindacali ammesse in fabbrica, la FIAT usci dalla Confindustria. Compatti come mai prima, i dirigenti del partito democratico apprezzarono la modernità  della proposta dell’uomo venuto dal Canada e residente in Svizzera. Fassino entusiasta, Chiamparino con burbera certezza apprezzò l’investimento promesso di venti miliardi. E Renzi? Con Marchionne senza se e senza ma, dichiarò dall’alto della sua provata competenza in materia. Al governo c’era Sacconi che si spericolò nell’appoggio a CISL e UIL firmatarie di accordi separati con la FIAT. Bisognava isolare quegli estremisti della FIOM se si volevano gli investimenti. Tra i lavoratori, la FIOM non è stata isolata mentre il progetto “Fabbrica Italia”, si è dissolto come neve al sole. Bonanni è confuso, smarrito. Fassino e Renzi riflettono e tacciono. La crisi dell’auto è di tale dimensione da rendere l’investimento promesso e illustrato da una campagna pubblicitaria che utilizzò tutti i mezzi, rischioso. Per questo non va più bene agli azionisti FIAT. La famiglia Agnelli ha intenzione d’investire in Italia soltanto per rafforzare la sua squadra di calcio. I tifosi della Juventus possono stare tranquilli a differenze delle migliaia di lavoratori che producono le FIAT. Che la crisi dell’auto sia cosa seria è indubbio ma il luminare canadese, residente in Svizzera, dovrebbe spiegare perchè la sua azienda ha i risultati peggiori in tutta Europa e continua a perdere quote di mercato. Non sarà  che la scelta di non produrre nuovi modelli, come hanno fatto tutte gli altri concorrenti, sia stata una scelta suicida? Assieme ad altri economisti, lo sostiene Romiti ex amministratore delegato della FIAT. E il governo dei professori che dice? Nello stesso giorno dell’annuncio di Marchionne, il presidente del consiglio ha ritenuto saggio indicare in alcuni articoli dello Statuto dei Lavoratori le ragioni della mancata crescita dell’occupazione in Italia. Non c’è dato sapere secondo quali ricerche, indagini, studi, Monti abbia fatto quest’affermazione. L’impressione è che, come succede a volte a tutti i predicatori, nel gentile professore abbia fatto velo l’ideologia. Non si tratta della consueta idea liberale, ma del più puro liberismo della “Scuola di Chicago” che, come possiamo verificare ogni giorno, sta producendo la ricchezza delle nazioni da almeno venti anni. Ma per ideologia si fanno “guerre sante” e non c’è prova contraria utile per far cambiare idea. L’ideologo non ha dubbi, mai. Così, una legge di civiltà  come’è lo Statuto dei Lavoratori, diviene il vincolo allo sviluppo. Banalità  che ha il sostegno di tanta parte dell’intellettualità  ma che fortunatamente provoca anche reazioni contrarie. L’arretratezza del Paese ha come causa essenziale la pluridecennale mancanza di ogni politica industriale. Il produrre denaro attraverso il denaro ha provocato lo spostamento della ricchezza da chi produce beni materiali alle rendite, spesso parassitarie. Che l’Italia abbia un problema di produttività  complessiva è evidente. Il problema che abbiamo è: quali politiche sono necessarie per migliorare la produttività ? La scelta di agire sul costo del lavoro è una scelta che non ci porta fuori dalla recessione. Non è questo che ha fatto la Germania. La produttività  è data dagli investimenti e dalle innovazioni di prodotto oltre che da un’organizzazione del lavoro che rifugge dalla precarietà . E’ questa la lezione che ci viene da Berlino. I dati dimostrano che il tessuto produttivo italiano senza investimenti rilevanti da decenni rischia una deindustrializzazione irreversibile. Se il privato non ha le risorse per innovare è il pubblico che dovrebbe avere un piano d’investimenti capace di superare le arretratezze del Paese. Le risorse? Lotta all’evasione, taglio della spesa improduttiva, patrimoniale sulle grandi ricchezze. E’ questa la linea di Hollande. Il ministro Passera, non passa giorno, che non promette piani per ogni settore. Avendoci promesso che per lui l’impegno in politica non terminerà  con il governo attuale, potrebbe trovare il tempo, tra un convegno e un altro, di far deliberare dal consiglio dei ministri uno dei tanti progetti promessi? Ancora oggi la pubblica amministrazione porta ritardi biblici nei suoi pagamenti ai fornitori. Quante piccole imprese stanno fallendo per questa ragione? Perchè la revisione della spesa pubblica continua a incentrarsi sulla sanità  quando le risorse impiegate in questo settore sono di sotto la media europea? Perchè si continua a privilegiare le grandi opere e non c’è uno straccio di piano per rendere sicure le strutture scolastiche o per risanare un territorio massacrato da eventi naturali e da una politica urbanistica terrificante? La campagna elettorale è iniziata in grande confusione. I sondaggi confermano che quasi la metà  dei cittadini è incerta se/o per chi votare. La destra continua a essere angosciata per l’incertezza della sesta ridiscesa in campo dell’Unto dal Signore. Il centrosinistra è in uno stato di lacerazione permanente e non appare in grado di offrire una piattaforma di governo capace di unire le forze. Il partito democratico sembra volersi giocare tutto con “L’operazione primarie”. E’ un rischio? Al punto in cui si è arrivati c’è poco da fare. Facessero pure le primarie, ma forse sarebbe utile che il candidato leader del centrosinistra lo scegliessero gli elettori di questo schieramento. Il contrario sarebbe come se il candidato dei repubblicani americani fosse stato scelto dagli elettori democratici. Non sarebbe stato antidemocratico e anche ridicolo?
Corriere dell’Umbria 16 settembre2012

Il Professore e il futuro

La campagna elettorale ha avuto inizio. L’apertura è avvenuta a Cernobbio in occasione del consueto incontro dei potenti d’Italia. Un sondaggio tra industriali, banchieri, opinion maker e quanto di altro, conferma che il prossimo governo dovrà  essere presieduto da Mario Monti pena la rivolta dei mercati. L’house organ del governo dei tecnici, il giornale di Eugenio Scalfari, elenca quanti sponsor ha già  incassato l’attuale capo del governo. Si va da Obama per passare alla Merkel e Barroso per non dire del Fondo Monetario Internazionale e, ovviamente, della burocrazia europea. Lo slogan? Non si può fare a meno di Monti, i mercati ci punirebbero. Siamo in una fase in cui sembrerebbe che i governi non siano frutto di un libero voto dei cittadini ma espressione di poteri finanziari misteriosi e/o di poteri politici esterni al nostro Paese. Non ci si può scandalizzare. L’avventura del governo delle destre, guidato dal Cavaliere di Arcore, aveva portato l’Italia vicino al disastro non solo e non tanto economico ma d’immagine complessiva. Mario Monti ha avuto la capacità  di ridare credibilità  internazionale a un Paese che ha fondamentali economici ancora forti ma una classe dirigente scadente. E non ci si riferisce alla sola classe politica. Certo il governo Monti ha applicato le ricette “liberiste” di tutti i governi europei e il suo programma di equità , rigore e sviluppo, allo stato dell’arte si è fermato al rigore nei conti a discapito delle condizioni di vita di milioni di cittadini. Purtroppo per l’equità  e per un nuovo sviluppo bisognerà  attendere che i mille annunci dei loquaci ministri divengano realtà . Ma il terrore di massa che le elezioni prossime venture ripropongano le stesse intelligenze che hanno portato l’economia allo stato che conosciamo, legittima la spinta ad avere un governo Monti-bis. Quelli che ci ostiniamo a chiamare partiti non sembrano in grado di rispondere all’indignazione popolare per la pessima politica di questi anni. Napolitano ha ragione quando afferma che non c’è democrazia senza partiti ma che i partiti devono rifondarsi pena la decadenza della democrazia. Quelli del centrodestra sono in attesa del Messia. Scende di nuovo in campo l’unto del signore? L’attesa sta diventando snervante e nel frattempo prevale la lotta tra colombe e falchi. Parlamento bloccato sulla legge anticorruzione e sulla riforma del sistema elettorale. Gli allibratori di Londra danno la conferma del “porcellum” per le prossime elezioni come l’ipotesi più attendibile. In realtà  la crisi del centrodestra si ripercuote sul funzionamento della democrazia parlamentare. Che hanno in testa gli amici del centro-sinistra? Un vecchio compagno di stagioni diverse mi ha chiesto, un poco affranto, com’è stato possibile che la sinistra sia passata dalle dispute tra Togliatti e Nenni o a quelle tra Ingrao e Amendola, all’aspra contesa tra Bersani e Renzi? Imbarazzato, ho cercato di consolare l’interlocutore ricordando che il processo d’impoverimento della sinistra ha riguardato gran parte del mondo occidentale principalmente per una ragione: i gruppi dirigenti dei partiti di sinistra sono stati tutti fagocitati dal pensiero, dall’ideologia liberista. Il crollo del blocco sovietico ha trascinato con sè anche le grandi socialdemocrazie. La terza via di Tony Blair e di Clinton si è rivelata una strada angusta che introitando l’ideologia della destra economica ha annichilito ogni idea di rinnovamento della sinistra. Con la scomparsa dei partiti di massa e con la conseguente personalizzazione della politica, sono scomparsi anche tutti quegli strumenti di ricerca e di studio che consentivano ai gruppi dirigenti di costruire piattaforme politiche frutto di un’autonoma elaborazione. Invece dello studio, adesso sembrano prevalere il marketing e gli spin doctor. In base a quale complesso d’idee e valori un cittadino sceglierà  il candidato premier del centrosinistra? Non è dato sapere. La forza di Renzi risiede nella giusta esigenza di rinnovamento dei gruppi dirigenti. Non è poco, ma non è sufficiente. L’età  anagrafica è un dato importante ma non esaustivo delle problematiche che tormentano il PD. Il rinnovamento del centrosinistra comporta anche, principalmente direi, quello delle idee e dei valori con cui si chiede il consenso ai cittadini. Se come sembra, il sindaco di Firenze ha in testa la stessa ideologia di Monti mi sembrerebbe logico e giusto per il Paese che Renzi si battesse perchè il professore rimanga dove sta. E’ certo che i rapporti internazionali di Monti siano più consolidati di quelli che ha al momento il competitor di Bersani e, nonostante l’età , anche Monti ha un suo appeal. I mercati poi non capirebbero, direbbe Casini. Com’è ovvio in vista delle elezioni sono cominciate a circolare voci sulle candidature. Chiacchiere da bar, speriamo. Se non lo fossero ci sarebbe da preoccuparsi. Il votare turandosi il naso è una categoria della politica sempre più in disuso. Renzi o non Renzi pensare di riprodurre, anche nelle prossime elezioni, candidature che hanno soltanto il senso del proseguire carriere già  infinite, non potrà  che allargare l’area del non voto. Anche queste saranno chiacchiere da bar, ma senza un profondo rinnovo dei candidati, molti si sentiranno legittimati a disertare la cabina elettorale. Sarebbe una tragedia? Sì, ma la responsabilità  ricadrebbe interamente sul ceto politico in campo.
Corriere dell’Umbria 9 settembre 2012