Galleggiare tra le meraviglie

Perchè meravigliarsi? I giovani che domenica scorsa, alla manifestazione del PD, hanno provato disagio sentendosi chiamare compagni, riflettono benissimo la natura del partito democratico. Una formazione politica che, ad anni dalla sua nascita, non sa che pesce sia nè quali possono essere le sue radici culturali e storiche. E’ abbastanza risibile che con una situazione grave quale quella che vive il Paese, il partito di opposizione con maggior forza elettorale, affronti una discussione anche sul modo di chiamare i propri iscritti. Non meraviglia che Letta o Fioroni rimpiangano il combattivo appellativo di amico, ma per coloro che assegnavano le loro speranze al riformismo per risolvere i problemi della nostra repubblica, la discussione appare quanto meno bizzarra. Anche questa stravagante tenzone ci conferma che la catastrofe italiana è sì il berlusconismo, ma anche la pochezza delle forze che si oppongono al Cavaliere rampante ad iniziare dal partito delle primarie.
Non siamo mai stati tra gli entusiasti del nuovo partito riformista, ma dobbiamo ammettere che c’è stato in noi un eccesso di ottimismo. Ciò che abbiamo di fronte è un agglomerato di notabilato politico incapace di stare insieme sulla base di un progetto condiviso ed incapace di mobilitare le forze necessarie ad impedire la deriva che le classi dirigenti stanno imprimendo al Paese. Bersani dichiara che il PD è il partito della Costituzione. Bene, bravo. Il problema è che gli sbreghi alla carta costituzionale sono il filo rosso che da tempo sta uccidendo, nel silenzio o con il consenso di parti consistenti del Paese, la democrazia italiana. Prima ne prendiamo atto, meglio sarà . La democrazia che abbiamo conosciuto nei decenni passati non esiste più. Oggi l’Italia è sgovernata a prescindere dal suo atto fondativo e non per la sola responsabilità  della destra. L’assillo delle modifiche costituzionali dura da trent’anni e ha avuto come primi attori anche uomini e donne del centrosinistra. La legge elettorale che ha prodotto un parlamento di “impiegati” dei partiti, è la fotocopia delle leggi con cui vengono eletti molti consigli regionali anche nelle regioni rosè. Tra premi di maggioranza e listini di porcellini ne sono stati prodotti parecchi anche con il benestare di una parte della sinistra radicale.
Non passa settimana che non vi sia un atto, una dichiarazione, un evento che vada in conflitto con quanto scritto dai costituenti eppure soltanto la CGIL manifesta in difesa della Carta.
Un ultimo esempio di ciò che vogliamo sottolineare? Il referendum dei lavoratori di Pomigliano pone al voto un diritto inalienabile e indisponibile. Il diritto di sciopero previsto dall’articolo 40 della Costituzione. Nel partito democratico, le voci critiche verso la Fiat sono state rare come i goal della nazionale di Lippi. Ciò che ha prevalso è un balbettio confuso, quando non hanno primeggiato gli hurrà  dei tifosi di Bonanni e di Sacconi, quelli degli innamorati del maglioncino di Marchionne, o dei Fiat dipendenti alla Fassino.
Come scrive Valentino Parlato, è meglio perdere combattendo che arrendersi alle preponderanti forze del nemico. Una battaglia si può perdere, ciò che non è ammissibile è presentare una sconfitta come un evento naturale dovuto alle sacre leggi di mercato.
A Pomigliano tutto era contro i lavoratori. Pochissimi hanno segnalato il rischio che l’introduzione del modo di produzione asiatico voluto dalla Fiat può mettere a rischio la stessa tenuta sociale del Paese. Lo scontro è stato durissimo, ma un partito che si proclama il partito della Costituzione non può non denunciare la gravità  dell’attacco ad un diritto come quello allo sciopero. Al di là  del merito della ristrutturazione produttiva prevista dal lodo Marchionne, tra l’altro accettata anche dalla Fiom, il Pd non poteva sottovalutare la destrutturazione del contratto nazionale e il colpo alla Costituzione inferto dall’accordo. L’euforia del riformista Sacconi non era un segnale da sottovalutare.
Tempi difficili quelli che si prospettano. In Umbria a torto o a ragione, è stato un vanto delle classi dirigenti amministrative il livello dei servizi al cittadino. Noi non siamo tra quelli che hanno sottovalutato i risultati della buona amministrazione quando questa è stata visibile. Siamo abbastanza certi che il livello raggiunto dalla spesa pubblica nella nostra regione sia robustamente al di sopra della media nazionale anche per motivi giusti. Non siamo tra quelli che ritengono un toccasana la privatizzazione dei servizi a prescindere dalla gestione dei beni comuni. Non ci guida l’ideologia, ma la concreta verifica dei risultati ottenuti anche in Umbria dalla vendita del patrimonio pubblico o dalle privatizzazioni già  realizzate. Abbiamo tuttavia la certezza che la questione della riconversione della spesa pubblica sia obbligatoria e non solo per i tagli del governo centrale.
L’arte del galleggiamento, in cui in questi anni sono stati maestri insigni molti protagonisti del ceto politico, non sarà  sufficiente a superare i marosi di una crisi che già  incide nei destini di tanta parte delle nuove generazioni. Una svolta sarà  necessaria se si vuole mantenere al centrosinistra l’amministrazione di così tanta parte della cosa pubblica. E’ richiesta una grande capacità  di innovazione nella gestione, ma anche una rinnovata capacità  di rapportarsi alle forze produttive e culturali regionali. Non sono un’enormità , ma ci sono.
La difficoltà  profonda nasce dal fatto che la politica si è consolidata come un mondo a parte che non riesce a mettere a leva i mondi esterni al ceto politico. E’ questo un problema che si è aggravato con il berlusconismo, ma anche per il populismo di troppi leader del centrosinistra. In ripetute stagioni l’Umbria è stata capace nelle fasi di difficoltà , di ricercare strade nuove cercando la collaborazione di intelligenze e culture esterne agli addetti ai lavori della politica. E’ forse illusorio augurarsi che anche in questi tempi difficili le classi dirigenti umbre la smettano di considerare solo il proprio ombelico è ricomincino a guardare alla materialità  delle cose? Come più volte detto, la speranza è l’ultima a morire. Galleggiare nell’esistente o nel già  fatto, diventa sempre più difficile.

Federalismo diplomatico

Anche i leghisti si sono indignati. Con la solita raffinata filosofia Bossi ha accusato il Ministro Brancher di essere stato poco furbo. E’ la furbizia non l’etica, che è mancata al Ministro all’attuazione del federalismo. Brancher, già  dirigente Fininvest, ha richiesto il legittimo impedimento per non dover rispondere ai magistrati in un processo in cui è accusato di cose gravissime. Michele Ainis ha scritto sulla Stampa di Torino:”E’ irrituale il comunicato di Napolitano sul caso Brancher? Può darsi; ma certamente è fuori da ogni rito democratico che un ministro senza ministero, prima ancora di capire quale sia il suo daffare nel governo, mandi a dire ai propri giudici che ha troppo da fare, verrà  in tribunale un’altra volta. Trasformando il sospetto in una prova, quanto alle ragioni della sua fulminea nomina. E soprattutto trasformando il legittimo impedimento in un’onda collettiva di legittima indignazione.” E sì questa volta a Berlusconi non è andata benissimo. La scelta di aumentare un ministero era già  discutibile. Di federalismo se ne stanno occupando almeno altri quattro ministri. Banalmente Berlusconi, nominandolo ministro, voleva salvare il suo ex dipendente dalle sue beghe con la legge. Si inventa un ministero inutile come un frigorifero al polo nord, mentre a due mesi dalle dimissioni di Scajola, ancora non c’è un ministro allo sviluppo economico. L’indignazione è stata così diffusa che anche il cauto Napolitano, anche al di là  del ruolo che svolge, ha dovuto prendere posizione. Non c’è Paese al mondo in cui un politico sotto processo possa diventare ministro. Non conosco con esattezza il numero di ministri, sottosegretari o parlamentari sotto indagine per reati gravissimi ma la cosa, in Italia, non sembrerebbe meravigliare nessuno. Sembrerebbe. Se la maggioranza degli opinion maker non pare indignata per questa particolarità  italiana, la gente comune ha cominciato a ritenere singolare che la classe dirigente imponga sacrifici a tutti mentre alcuni politici, alcuni industriali, alcuni rentier e moltissimi altri continuano nei loro traffici illegali o ad evadere sistematicamente le tasse. In modi tradizionali, scioperi e manifestazioni di piazza o nelle piazze virtuali, blog e siti in rete, la protesta comincia a crescere. La discussione sulla manovra finanziaria è divenuta molto aspra e non riguarda soltanto governo e opposizione. Regioni e Comuni hanno con nettezza rifiutato l’ipotesi di Tremonti di scaricare sulla struttura decentrata della spesa pubblica tutto il peso della crisi. Non si tratta soltanto della difesa dell’interesse del ceto politico locale di avere risorse a dispetto della crisi. Trasporti, servizi socio-sanitari, scuole sono competenze regionali e comunali. Il taglio previsto renderà  impossibile, a meno di aumentare le tasse, mantenere a livelli di civiltà  questi servizi al cittadino.
Certo qualche ridimensionamento nelle spese regionali e locali bisognerà  pur farlo. Gli sprechi non sono mancati in questi anni. L’enormità  degli addetti alla carriera politica si aggiunge ai clientes da soddisfare se si vuol conservare il proprio sistema di potere. La casta non è un’invenzione giornalistica.
Un esempio pesante delle attitudini della casta è quello della presenza delle regioni con sedi e funzionari in molti Paesi. Avete mai incontrato nei vostri viaggi all’estero o semplicemente visitando Roma, la rappresentanza dello Stato della California o quella della Wesfalia? Vi siete mai imbattuti a Milano nella sede della regione di Parigi o della Baviera? Sapete che le sedi delle regioni italiane all’estero sono 178? La creatività  italiana non ha limiti. La regione Veneto ha aperto dieci, rappresentanze in Cina, un ufficio in Bielorussia, uno in Bosnia, un paio in Canada, tre in Romania, quattro negli Stati Uniti, ecc”¦ecc. Piemonte, Lombardia e Veneto ne hanno complessivamente 78.Questa Farnesina regionale frantumata, questo federalismo diplomatico nel mondo è un significativo spreco di risorse pubbliche che serve esclusivamente ad un turismo amministrativo che è sempre stato sgradevole ma in una fase di crisi come l’attuale in cui sono messi a rischio servizi primari al cittadino diviene intollerabile. Da questo punto di vista la nostra è stata una regione sobria. Ciò non significa che non sia necessaria anche dalle nostre parti una riconsiderazione di ciò che si è istituzionalizzato in questi anni. Anche da noi è arrivato il tempo di introdurre alcuni criteri di base nell’organizzare la presenza pubblica nella società . Sarà  un’antica passione, ma rimango convinto che una parte consistente dell’attività  politica e di quella amministrativa deve svolgersi attraverso il lavoro volontario, non retribuito. Il male oscuro della politica è il carrierismo e relative prebende. Questo provoca una rincorsa affannosa a cercare il santo protettore capace di assicurarti un posto e un guadagno economico. Sono certi i partiti che non sia possibile far funzionare alcuni settori della pubblica amministrazione attraverso il volontariato? Eppure vi sono studi e ricerche che dimostrano come sia i giovani che gli anziani sono fortemente interessati ad attività  pubbliche anche senza avere un tornaconto finanziario. La presidente Marini ha parlato ripetutamente di necessaria sobrietà  e rigore nella gestione della cosa pubblica. Giusta impostazione a cui dare sostanza. Non sono in grado di individuare quali e quanti siano gli enti e le strutture da riconvertire o chiudere. Forse introducendo il criterio della gratuità  dell’incarico sarebbe più facile combattere municipalismi e localismi. Non annullo le circoscrizioni, ma la loro gestione è assicurata dal lavoro volontario da organizzare tra i cittadini interessati. Non chiudo l’ente culturale, ma il presidente e i membri del consiglio di amministrazione svolgono il loro ruolo gratuitamente o solo a rimborso spese. Un’utopia? Possibile, ma resto convinto che se non si ridimensiona alla radice il carrierismo politico non si va da nessuna parte. Si dirà  che certi incarichi necessitano del tempo pieno ed è vero. Un’altra utopia: chi sarà  a tempo pieno riceverà  un’indennità  pari al suo salario, i liberi professionisti e i membri del popolo delle partite IVA, avranno l’indennità  parametrata alla dichiarazione dei redditi. Lo so si tratta di pura fantasia, ma non sempre i sogni muoiono all’alba.

La Cina è vicina

A scuola ci hanno insegnato che la storia è maestra di vita. Osservando ciò che succede nel mondo della politica e dell’economia viene spontaneo pensare che il ceto dirigente di storia ne abbia studiata poca. Parlano di modernità e ci propongono il ritorno all’ottocento o al modello di produzione asiatico.
Infatti, la destra politica ed economica presenta l’attacco all’articolo 41 della Costituzione come un esempio della modernità da dover perseguire nel nostro Paese e l’accordo Fiat per Pomigliano il massimo di una nuova, avanzatissima metodologia contrattuale da estendere a tutti i lavoratori. Le due cose, modifica costituzionale e contratto Fiat, vanno lette come frutto di un unico progetto. Un disegno che, se realizzato, porterà l’Italia a competere non con la Germania o con i Paesi nordici, ma con i trattamenti del lavoro vigenti in Cina o in Indonesia.
Dalla sua promulgazione ad oggi, non esiste una sola sentenza della Corte Costituzionale concernente l’articolo 41. Non c’è stato mai un imprenditore che abbia subito un danno dal rispetto dei principi previsti nella norma. Anzi, analizzando i dati dell’economia sommersa, degli incidenti sul lavoro, sull’evasione fiscale non sembra proprio che i vincoli all’imprenditorialità, denunciati da Tremonti e Sacconi, abbiano gran che funzionato.
Per essere innovativi e moderni bisogna comunque eliminarli anche formalmente assieme ai contratti nazionali di lavoro. Così che l’iniziativa privata possa svolgersi non solo liberamente ma a prescindere dalla sicurezza, dalla libertà dei lavoratori e dalla dignità umana e con contratti sempre più individuali. Duecento anni di avanzamento dei diritti del lavoro cancellati in nome della concorrenza, un bel salto di qualità. Così se in Germania gli imprenditori e i sindacati lavorano sull’innovazione di prodotto e su un’organizzazione del lavoro più efficace, qui da noi l’unico vincolo da superare è l’alto costo della produzione unito ad una Costituzione arcaica che impedisce la creatività imprenditoriale. Come se la bassa produttività dipendesse dalla cattiva volontà dei lavoratori e non da una bassa propensione all’investimento in ricerca e innovazione e dall’arretratezza di tutte le infrastrutture del Paese. Negare che la burocrazia italiana va destruttura e innovata profondamente sarebbe una sciocchezza. La farraginosità dei controlli e dei permessi per aprire un’attività economica è stata costruita attraverso leggi ordinarie e da una marea di circolari e di regolamenti che vengono stilati dai ministeri o dalle amministrazioni regionali, provinciali, comunali o dalle Camere di Commercio.
Per cambiare le cose basterebbero analizzare e rimuovere questa marea di norme che non sono frutto del dettato costituzionale, ma dell’incapacità della politica e degli apparati burocratici di cui spesso sono figli. Ogni firma necessaria ad un progetto, ogni permesso esprime un piccolo o grande potere che viene esercitato con determinazione, con lentezza e a volte in modo becero e arrogante. Anche da qui nascono l’inquinamento e la corruzione. Questo è il problema. L’ottimo Brunetta avrebbe un gran lavoro da fare per modernizzare la burocrazia del Paese. Ha perso del tempo nella corsa alla sindacatura di Venezia. Non ha vinto il posto da primo cittadino della laguna, ha tempo per dedicarsi al suo impegno di Ministro. Buon lavoro.
Molto lavoro spetta al parlamento. Legge sull’intercettazioni, decreti tremontiani sulla crisi finanziaria sono le due scadenze principali. Sulla legge bavaglio si spera in un ripensamento della maggioranza dopo l’esplodere di proteste in Italia e all’estero.
Per il decreto Tremonti i giornali segnalano questa situazione:
“sono 2.550 gli emendamenti presentati dai vari gruppi parlamentari alla manovra in discussione in commissione Bilancio al Senato. Quasi la metà sono della maggioranza. Il gruppo del Pdl è in testa quanto a proposte di modifica con 1.116 emendamenti. Dalla Lega sono arrivate 89 proposte di modifica, dal Pd 823. L’Italia dei Valori ha presentato 149 emendamenti, 293 l’Udc e 80 dal gruppo misto. Gli ordini del giorno sono in totale 43. Al momento non sono state presentate proposte di modifica dal relatore Antonio Azzollini e dal governo. La commissione Bilancio è convocata per martedì alle 15 con la replica di relatore e governo e poi inizierà l’esame degli emendamenti. Da calendario, la manovra sarà in aula il primo luglio.”
Un quadro difficile che lascia prevedere l’esplodere di tensioni nella maggioranza e tra questa e l’opposizione. La conferenza dei presidenti di regione ha già espresso una valutazione allarmata. I sindaci di tutta Italia hanno previsto una manifestazione nazionale di protesta. La CGIL ha indetto uno sciopero e anche CISL e UIL guardano con preoccupazione quanto si deciderà in parlamento. Angeletti e Bonanni sperano che la loro buona vicinanza con il Ministro Sacconi porti buoni frutti.
Il PD promette emendamenti che delineino una linea alternativa a quella del Governo. Staremo a vedere.
Per intanto il gruppo dirigente ha mostrato una grande varietà di posizioni rispetto a quanto sta succedendo a Pomigliano. Innegabile la difficoltà di prendere una posizione netta. Il problema è complesso per un partito che ha al suo interno supporter della CISL, della UIL, della CGIL, della FIOM è complicato scegliere. Ci si poteva augurare una maggior preoccupazione per le parti dell’accordo che prevedono, di fatto, il ridimensionamento di un diritto costituzionale o l’annichilimento del contratto nazionale. Qualche balbettio c’è stato, ma non più di tanto. Si andrà ad un referendum che concerne anche un diritto indisponibile, non contrattabile per nessuno. Quello previsto all’articolo 40 della Costituzione. Il diritto di sciopero. Sacconi e Tremonti sostengono che con l’accordo vinceranno i riformisti. Se l’accordo capestro di Marchionne è il riformismo che va bene alla destra forse qualche problema di aggettivazione per Bersani e company c’è. Dovranno trovare un’altra definizione per il loro partito. Tempo ce ne è: per il PD siamo ancora al working progress, ed è nota la creatività dei democratici.

La Cina è vicina

A scuola ci hanno insegnato che la storia è maestra di vita. Osservando ciò che succede nel mondo della politica e dell’economia viene spontaneo pensare che il ceto dirigente di storia ne abbia studiata poca. Parlano di modernità  e ci propongono il ritorno all’ottocento o al modello di produzione asiatico.
Infatti, la destra politica ed economica presenta l’attacco all’articolo 41 della Costituzione come un esempio della modernità  da dover perseguire nel nostro Paese e l’accordo Fiat per Pomigliano il massimo di una nuova, avanzatissima metodologia contrattuale da estendere a tutti i lavoratori. Le due cose, modifica costituzionale e contratto Fiat, vanno lette come frutto di un unico progetto. Un disegno che, se realizzato, porterà  l’Italia a competere non con la Germania o con i Paesi nordici, ma con i trattamenti del lavoro vigenti in Cina o in Indonesia.
Dalla sua promulgazione ad oggi, non esiste una sola sentenza della Corte Costituzionale concernente l’articolo 41. Non c’è stato mai un imprenditore che abbia subito un danno dal rispetto dei principi previsti nella norma. Anzi, analizzando i dati dell’economia sommersa, degli incidenti sul lavoro, sull’evasione fiscale non sembra proprio che i vincoli all’imprenditorialità , denunciati da Tremonti e Sacconi, abbiano gran che funzionato.
Per essere innovativi e moderni bisogna comunque eliminarli anche formalmente assieme ai contratti nazionali di lavoro. Così che l’iniziativa privata possa svolgersi non solo liberamente ma a prescindere dalla sicurezza, dalla libertà  dei lavoratori e dalla dignità  umana e con contratti sempre più individuali. Duecento anni di avanzamento dei diritti del lavoro cancellati in nome della concorrenza, un bel salto di qualità . Così se in Germania gli imprenditori e i sindacati lavorano sull’innovazione di prodotto e su un’organizzazione del lavoro più efficace, qui da noi l’unico vincolo da superare è l’alto costo della produzione unito ad una Costituzione arcaica che impedisce la creatività  imprenditoriale. Come se la bassa produttività  dipendesse dalla cattiva volontà  dei lavoratori e non da una bassa propensione all’investimento in ricerca e innovazione e dall’arretratezza di tutte le infrastrutture del Paese. Negare che la burocrazia italiana va destruttura e innovata profondamente sarebbe una sciocchezza. La farraginosità  dei controlli e dei permessi per aprire un’attività  economica è stata costruita attraverso leggi ordinarie e da una marea di circolari e di regolamenti che vengono stilati dai ministeri o dalle amministrazioni regionali, provinciali, comunali o dalle Camere di Commercio.
Per cambiare le cose basterebbero analizzare e rimuovere questa marea di norme che non sono frutto del dettato costituzionale, ma dell’incapacità  della politica e degli apparati burocratici di cui spesso sono figli. Ogni firma necessaria ad un progetto, ogni permesso esprime un piccolo o grande potere che viene esercitato con determinazione, con lentezza e a volte in modo becero e arrogante. Anche da qui nascono l’inquinamento e la corruzione. Questo è il problema. L’ottimo Brunetta avrebbe un gran lavoro da fare per modernizzare la burocrazia del Paese. Ha perso del tempo nella corsa alla sindacatura di Venezia. Non ha vinto il posto da primo cittadino della laguna, ha tempo per dedicarsi al suo impegno di Ministro. Buon lavoro.
Molto lavoro spetta al parlamento. Legge sull’intercettazioni, decreti tremontiani sulla crisi finanziaria sono le due scadenze principali. Sulla legge bavaglio si spera in un ripensamento della maggioranza dopo l’esplodere di proteste in Italia e all’estero.
Per il decreto Tremonti i giornali segnalano questa situazione:
“sono 2.550 gli emendamenti presentati dai vari gruppi parlamentari alla manovra in discussione in commissione Bilancio al Senato. Quasi la metà  sono della maggioranza. Il gruppo del Pdl è in testa quanto a proposte di modifica con 1.116 emendamenti. Dalla Lega sono arrivate 89 proposte di modifica, dal Pd 823. L’Italia dei Valori ha presentato 149 emendamenti, 293 l’Udc e 80 dal gruppo misto. Gli ordini del giorno sono in totale 43. Al momento non sono state presentate proposte di modifica dal relatore Antonio Azzollini e dal governo. La commissione Bilancio è convocata per martedì alle 15 con la replica di relatore e governo e poi inizierà  l’esame degli emendamenti. Da calendario, la manovra sarà  in aula il primo luglio.”
Un quadro difficile che lascia prevedere l’esplodere di tensioni nella maggioranza e tra questa e l’opposizione. La conferenza dei presidenti di regione ha già  espresso una valutazione allarmata. I sindaci di tutta Italia hanno previsto una manifestazione nazionale di protesta. La CGIL ha indetto uno sciopero e anche CISL e UIL guardano con preoccupazione quanto si deciderà  in parlamento. Angeletti e Bonanni sperano che la loro buona vicinanza con il Ministro Sacconi porti buoni frutti.
Il PD promette emendamenti che delineino una linea alternativa a quella del Governo. Staremo a vedere.
Per intanto il gruppo dirigente ha mostrato una grande varietà  di posizioni rispetto a quanto sta succedendo a Pomigliano. Innegabile la difficoltà  di prendere una posizione netta. Il problema è complesso per un partito che ha al suo interno supporter della CISL, della UIL, della CGIL, della FIOM è complicato scegliere. Ci si poteva augurare una maggior preoccupazione per le parti dell’accordo che prevedono, di fatto, il ridimensionamento di un diritto costituzionale o l’annichilimento del contratto nazionale. Qualche balbettio c’è stato, ma non più di tanto. Si andrà  ad un referendum che concerne anche un diritto indisponibile, non contrattabile per nessuno. Quello previsto all’articolo 40 della Costituzione. Il diritto di sciopero. Sacconi e Tremonti sostengono che con l’accordo vinceranno i riformisti. Se l’accordo capestro di Marchionne è il riformismo che va bene alla destra forse qualche problema di aggettivazione per Bersani e company c’è. Dovranno trovare un’altra definizione per il loro partito. Tempo ce ne è: per il PD siamo ancora al working progress, ed è nota la creatività  dei democratici.

Macelleria sociale

Un altro venerdì nero per le borse mondiali. La crisi finanziaria sembra senza fine. Aumenta l’incertezza. La cosa non riguarda soltanto i piccoli risparmiatori. La crisi coinvolge tutte le famiglie perchè in tutte le famiglie c’è il giovane disoccupato o un pensionato o un lavoratore che hanno visto ridimensionato il proprio tenore di vita. Sommerso da statistiche che confermano quasi sempre il degrado del nostro Paese, il popolo vorrebbe capire quale strada la politica indica per risolvere i problemi, ma la politica continua con i suoi riti incomprensibili ai più. I teatrini sono gli stessi: Ballarò, Anno Zero, Porta a Porta, svolgono i loro spettacoli con un canovaccio sempre uguale, con uguali protagonisti. Al popolo spetta il ruolo di tifoso da curva Nord. L’umore del cittadino di destra o di sinistra cambia se Tizio è stato più bravo di Caio nel dibattito televisivo. Una farsa in cui era difficile ridere, ma che si sta convertendo in una tragedia. Difficile non allarmarsi. La quotidianità  ci ricorda le difficoltà  nell’immaginare un futuro sereno per la nostra comunità , mentre la classe dirigente continua a trastullarsi in dibattiti in cui prevale l’interesse ad insultare l’avversario piuttosto che a trovare soluzioni ai problemi del Paese. A due settimane dall’annuncio si comincia a capire che cosa prevede il decreto da 25 miliardi voluto da Tremonti e accettato a collo torto da Berlusconi. Al di là  dell’analisi dei singoli provvedimenti, si può affermare che è evidente un paradosso: coloro che subiscono la crisi pagheranno la crisi e coloro che la crisi hanno prodotto, non pagheranno un Euro. Anzi alcuni continueranno ad arricchirsi proprio attraverso l’utilizzo dei meccanismi della crisi finanziaria. Capiremo nelle prossime settimane cosa proporranno le forze politiche per rendere i provvedimenti più equi. Per adesso quello che colpisce è l’incapacità  del centrosinistra di prospettare uno scenario diverso da quello di Tremonti. E’ indubbia la responsabilità  del governo nell’aver negato fino a poche settimane fa la gravità  della situazione. Ma il centrosinistra non è stato fino ad ora in grado di proporre alternative ai tagli imposti dal governo. L’Italia è un Paese in cui la ricchezza è distribuita senza alcuna equità . Negli ultimi decenni, anche quando il centrosinistra è stato al governo, si è allargata la forbice tra i ricchi e i poveri. La crisi non potrebbe essere l’occasione per restringere la forbice? Non sarebbe giusto far pagare più coloro che più posseggono? Non dovrebbe essere questo l’orizzonte di una forza anche timidamente riformista? Per i riformisti nostrani sembra quasi una bestemmia parlare dei grandi patrimoni o delle rendite finanziarie che, in Italia, sono tassate in modo ridicolo. Destra, sinistra e centro invocano la lotta all’evasione fiscale. Il governatore Draghi ha denunciato il fatto che la macelleria sociale che risulterà  dai provvedimenti nasce dal livello di evasione. Sacrosanto. Che fare, quindi? La scelta tremontiana è chiara: ridimensionare la spesa pubblica. Lo si ottiene bloccando gli stipendi dei dipendenti pubblici, intervenendo sulle pensioni e ridimensionando la spesa delle regioni e delle autonomie locali. Coerente con ciò che si è prodotto in questi anni attraverso i tagli alla scuola e alle università  pubbliche o alla ricerca, il governo propone una ricetta di salvaguardia dei conti pubblici per soddisfare i vincoli comunitari. Quali sono le proposte alternative dell’opposizione? Non è dato sapere. Drammaticamente emergono la debolezza del partito democratico e l’estremismo parolaio delle altre forze di centrosinistra. E’ allarmante il fatto che ancora oggi il PD non riesca a darsi un’identità  riconoscibile. Forse è giunto il tempo di analizzare in profondità  le ragioni della perdurante fragilità  del riformismo italiano. Oggi il PD è un partito di amministratori locali che però non ha un’organizzazione territoriale che vive al di là  delle scadenze elettorali. (altro…)