La partita di calciatori e politici

Il mondo del calcio professionistico è una perfetta metafora del
Paese? Le similitudini sono molte.
Spese fuori controllo, bilanci falsi, sprechi e corruzione segnano
ormai da anni le stagioni del calcio giocato. Se il Parlamento
vota leggi personalizzate, la lega calcio applica le leggi in
modo diverso rispetto ai soggetti interessati. Anche nel calcio la
magistratura è chiamata ad un duro lavoro per garantire
trasparenza e legalità . Che dire dei conflitti d’interesse? Il
presidente della lega calcio è anche presidente dell’A.C.Milan e
ottimo collaboratore di Mediaset. Una quisquiglia al confronto del
conflitto del suo datore di lavoro ed è forse per questo che pochi
ormai si indignano. Se la campagna acquisti nel regno di Galliani
e soci è giunta quasi al termine, gli ingaggi nel mondo della
politica sono appena iniziati. Nel calcio lo strapotere è delle
grandi società  di Milano e Torino. Tutte e tre hanno rafforzato
gli organici per la prossima stagione. In politica è più forte
l’area di centrosinistra che, dato per vincente alle prossime
elezioni, può contare sull”˜acquisizioni di personaggi che hanno
cambiato idea rispetto al cavaliere di Milano e coerentemente
intendono mutare casacca. Se Gilardino può realizzare il suo sogno
giocando a Milano assieme a Pirlo e Sheva, Sgarbi e tanti altri
puntano al collegio sicuro per essere rieletti come parlamentari.
Dopo i disastri elettorali della casa della libertà , Berlusconi
non può garantire niente a nessuno. Meglio trattare con Mastella e
soci, si sono detti molti dirigenti di Forza Italia e non solo.
Non è ricco il berlusconismo di tanta fauna di matrice di sinistra
a volte extraparlamentare? E quanti ex-democristiani si trovano a
disagio con le brutte figure del governo Berlusconi? Meglio una
crisi di coscienza e ricambiare maglietta. Ci assicurano che ne
vedremo delle belle e chissà  quanti elettori dell’Ulivo si
schiferanno di questo traffico. Basterà  l’anti berlusconismo per
convincere un elettore della sinistra umbra a votare nel collegio
per De Michelis o Sgarbi? Gli esperti assicurano che avendo già 
votato per Adornato gli umbri digeriranno altri voltagabbana. Ciò
è possibile, ma è anche probabile che il rigetto di Berlusconi non
basti quando il candidato è troppo lontano dal comune sentire di
un democratico magari anche di sinistra. Astenersi non è più
peccato ci rassicura il cardinal Ruini.
D’altra parte la politica di oggi riguarda soltanto gli aspiranti
ai concorsi per i posti al sole. I comuni mortali ormai
considerano che la politica serva soltanto a perpetuare una classe
politica ossificata.
Non è certo che le compravendita in atto aiuti la politica a
trovare una qualche forma di dignità , ma per garantirsi la
poltrona molti pensano che si possa prescindere dall’etica e dai
valori. E’ come nel calcio. Lucarelli del Livorno e pochi altri
giocatori hanno resistito ad un aumento di ingaggio per l’amore di
casacca e di appartenenza ad una comunità .
Le rassomiglianze tra football e politica non finiscono qui. Ad
esempio tutti i grandi club utilizzano raramente in prima squadra
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giocatori del proprio vivaio. Si preferisce l’acquisto del bomber
o dell’uomo di fascia di un’altra nazionalità .
Noi umbri siamo diventati un poco provinciali. Spesso ci facciamo
abbacinare da soluzioni di una qualche società  esterna i cui
venditori, usando male qualche termine inglese, convincono i nostri
amministratori a scelte che poi si risolvono in una bufala
micidiale. In regime di sana concorrenza nessuno può pensare a
protezioni alle imprese locali. Anzi le coperture in atto
dovrebbero essere rimosse a vantaggio della trasparenza. Forse
perchè la realtà  ci sfugge o perchè siamo conservatori che il
nuovo ci affascina quando è lontano, ma non si riconosce quando è
sotto i nostri occhi.
Esemplare da questo punto di vista il mondo dell’informatica e
della comunicazione che esiste in Umbria, ma sembra poco
conosciuto dai decisori pubblici.
Il segretario di Rifondazione, Stefano Vinti, ha posto l’esigenza
della creazione di una rete di imprese di software in Umbria.
Propone Vinti un centro umbro di ricerca che coinvolga anche
l’Università  per la produzione di software. Metodologicamente
bisognerebbe che la pubblica amministrazione approfondisse la
conoscenza delle imprese che operano nel settore per poi elaborare
politiche che favoriscono un processo di aggregazione delle
imprese che già  realizzano innovazione nel settore
dell’informatica e della comunicazione. Di Centri e Agenzie che
non funzionano l’Umbria ne è piena. La strada deve essere diversa.
Partendo da una questione. Esiste un mercato interno capace di far
crescere imprese? E’ evidente a tutti che al momento la domanda di
informatizzazione è debole. Debolissima nel settore privato, male
organizzata in quello pubblico. Come far aumentare la domanda? Con
quali risorse? La domanda cresce se la pubblica amministrazione
che produce una fetta consistente del prodotto interno lordo,
investe in informatizzazione e in comunicazione. Diventando più
efficiente e trasparente anche grazie all’uso delle tecnologie
informatiche. Dove si trovano le risorse? Spendendo meglio quelle
che già  si spendono che non sono piccola cosa. Ecco un tavolo di
discussione all’interno del Patto per lo sviluppo. I giovani
protagonisti delle aziende già  presenti in Umbria potrebbero dare
un contributo essenziale per la comprensione del problema. Buon
lavoro.
Arriva agosto ma quest’anno c’è poco da augurarsi buone ferie.
Troppe tragedie e incertezze.
Per fortuna i fans umbri di Elton John potranno avere ancora la
soddisfazione di ascoltare dal vivo il baronetto. Dovranno andare
a Roma ai Fori Imperiali il 3 settembre. Il viaggio non è lungo e
il concerto è gratuito. Con quanto è costato quello di Perugia non
è male, no?
Corriere dell’Umbria 31 luglio 2005

All’anima della Costituzione

L’ordine del giorno concernente il funzionamento delle regioni
approvato dalla direzione diessina nei giorni scorsi ha provocato
un aspro dibattito nell’area dell’Ulivo. Agghiacciante è il
termine più consono a definire quanto è successo.
Non abbiamo tutti gli elementi per esprimere una valutazione
complessiva sul modo in cui le regioni governate dal
centrosinistra funzionano. Abbiamo però la certezza che il costo
della politica ha raggiunto livelli di guardia e che si lavori più
alla costruzione di sistemi di potere personale che all’interesse
collettivo. Non è questione di moralità . All’uopo ci sono organi
preposti che, siamo certi, alla bisogna faranno il loro dovere.
Risibili i gridi di dolore di certi presidenti, allucinante il
solito Mastella. Soltanto la presidente del Piemonte, Mercedes
Bresso, ha riconosciuto il sussistere di una situazione
intollerabile. Marrazzo, Loiero e Bassolino l’hanno presa male, ma
sbagliano. La questione non nasce per una campagna qualunquistica
di destra e non c’entra affatto il centralismo. E’ problema reale
avvertito da studiosi e dalla gente comune. La questione della
qualità  dell’amministrazione locale esiste e si è andato via, via
aggravando. Quello che emerge dalla discussione è il problema
della qualità  democratica e di rapporto tra etica e politica.
Andiamo con ordine. Tutte le regioni hanno scelto il
presidenzialismo ed eleggono, quindi, direttamente il loro
presidente che ha poteri assoluti rispetto al consiglio regionale.
Tutte le regioni hanno aumentato il numero dei consiglieri, quello
degli assessori e quello delle commissioni. Contributo sostanzioso
alla lotta per l’occupazione intellettuale il numero degli addetti
alle segreterie, alle presidenze e negli staff. Non si possono
negare poi le adeguate consulenze sulle materie di competenza
regionale e di conseguenza altri contratti atipici. Lavori non
gravosi, viste le competenze dei consigli e più che mai ben
pagati. Tutto votato in modo bipartisan e in piena allegria di
tutto il ceto politico addetto ai lavori. Le direzioni nazionali
dei partiti per ignavia e incompetenza si sono completamente
disinteressate a questo processo degenerativo. Non pensiamo che
questa ragnatela di clientes dipenda semplicemente dalla cattiva
attitudine dei singoli amministratori. E’ il sistema politico che
produce questa mostruosità  corrosiva della democrazia.
Con questa convinzione questo giornale ha affrontato ripetutamente
la questione del presidenzialismo in rapporto alla democrazia
rappresentativa prevista dalla costituzione. Il previsto aumento
dei membri dell’assemblea ci sembrava fuori misura.
Non abbiamo avuto una grande audience: il ceto politico umbro era
tutto rivolto alle candidature e poi alla conquista delle
preferenze. Le forze sociali, sindacati compresi, indifferenti o
d’accordo con quanto decidevano in consiglio regionale. I rari
dirigenti della sinistra schierati contro il presidenzialismo sono
rimasti pochi e isolati. La leaderite acuta ha stravinto.
E sembra che continuerà  a vincere nel centrosinistra. Caso ultimo
della malattia, così diffusa nella casta politica, è analizzabile
nella scelta delle primarie di ottobre volute da Prodi ed
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entusiasticamente cantate da Bertinotti. Permanendo formazioni
politiche più simili a ectoplasmi che a strutture democratiche, vi
può essere la tentazione di chiedere agli elettori un voto anche
per la scelta dei candidati, i pareri al riguardo sono diversi. E’
il caso delle primarie dell’Ulivo? No. Nessuno ha proposto di
aprire una metodo di scelta dei candidati che riguarda tutti i
concorrenti per le elezioni politiche del 2006. Le oligarchie
romane e locali sono da tempo al lavoro e stanno già  spartendosi
tranquillamente i collegi e gli eletti. Si fanno elezioni primarie
per indicare il leader della coalizione sapendo che già  tutti i
partiti dell’Ulivo hanno scelto Prodi. E d’altra parte il leader
della coalizione non è previsto da nessuna legge vigente. Si
tratta di un’altra tappa della deriva plebiscitaria costruita in
anni e anni di duro lavoro per affermare partiti personalizzati e
clientele diffuse? Per mobilitare l’elettorato del centrosinistra
si è scelta una strada ambigua e stupisce che Rifondazione e la
sinistra abbiano sottovalutato il rischio di un meccanismo che, al
di là  della volontà  dei singoli, è un procedimento plebiscitario
pericoloso in contrasto con l’anima della Costituzione
repubblicana.
Soltanto nella controriforma costituzionale voluta dai berluscones
il primo ministro assume i caratteri dell’uomo che ha avuto il
mandato dal popolo e che quindi solo ad esso risponde. Alla faccia
del ruolo del Parlamento e degli altri poteri democratici.
Sommessamente. Il berlusconismo senza Berlusconi rimane una
possibilità  indigeribile.

Partitocrazia o scelta di qualità 

E’ concesso ad un ex presidente di regione essere ancora impegnato
nella gestione della cosa pubblica? A rigor di logica la scelta
dovrebbe essere valutata non per il precedente incarico, ma
esclusivamente rispetto alle qualità  e al curriculum del
prescelto. Invece, a giudizio del leader dell’opposizione in
consiglio regionale, Pietro Laffranco, la scelta di indicare
Claudio Carnieri alla guida dell’Agenzia Umbra Ricerche, è
sbagliata perchè si tratterebbe di un altro episodio di
partitocrazia. Parola magica che provoca brividi tra le masse
popolari notoriamente impegnate nell’analisi delle vicende
politiche. Laffranco non si è accorto che la politica si realizza
soltanto nella gestione della cosa pubblica? Cosa sono diventati i
partiti se non facitori di amministratori locali e nazionali? E’
cosa utile per la pubblica amministrazione utilizzare le qualità 
di Carnieri o no? E’ questa la domanda a cui rispondere. Andiamo
con ordine. Claudio Carnieri è stato uno dei leader più apprezzati
dei comunisti umbri e, sciolto il Pci, dei DS. E’ persona di
acclarata cultura politica che nella sua lunga esperienza di
leader ha dimostrato ripetutamente una capacità  di direzione
politica, di studio e di analisi molto corposa. Ha tutte
certamente le competenze e l’attitudine ad un ruolo come quello
indicato dalla presidente della giunta. E’ una risorsa per
l’Umbria non un lottizzato. Se c’è una colpa, e la colpa c’è, del
centrosinistra e dei DS è quella di aver in questi anni poco
utilizzato uomini e donne di una generazione diversa da quella al
comando. Non è un limite serissimo la gestione mono-generazionale
della cosa pubblica in Umbria? Difficile negarlo. Inesistenti i
ventenni, pochi i trentenni in campo, pochissimi i sessantenni.
Permane una classe dirigente che vive in un eterno oggi senza
trarre conoscenza dal passato nè pensando al futuro del movimento
politico a cui appartengono. Uno stato di cose che spesso
sollecita in qualche amministratore megalomanie, arroganze, borie
intollerabili che vanno sempre assieme a incapacità  e mediocrità .
E’ anche per questo che la politica si è rinsecchita e rischia di
diventare esclusivamente un costoso strumento di costruzione di
sistemi di potere sempre più personalizzati. Sistemi di potere che
oltre ad avvelenare la democrazia sono un onere intollerabile per
la spesa pubblica.
Se una persona prudente e accorta come Fassino ha ritenuto di
dover formalizzare una commissione che analizzi, tra l’altro,
anche “i costi della politica” la situazione dovrebbe essere
veramente seria.
Che il volontariato in politica sia praticamente confinato al
lavoro in qualche festa di partito è cosa ormai acclarata:
impegnarsi in politica comporta nel tempo, dipende dalla squadra
di appartenenza, l’ottenimento di incarichi retribuiti. La corsa
alle candidature e poi alle preferenze nelle diverse elezioni
corrisponde al meccanismo del concorso pubblico. E come spesso
succede anche nel pubblico concorso non sempre vince il migliore.
Non sempre l’alto numero di preferenze è semplicemente un test di
popolarità . Un aiutino e uno sponsor forte possono essere
decisivi.
Indignarsi è legittimo ma serve a poco se non si cerca di
modificare lo stato di cose esistente. Ad esempio non è tempo che
si riconsiderino questioni come quelle delle incompatibilità  e
dei conflitti di interesse? Siamo certi che siano corrette le
indennità  previste per i diversi livelli amministrativi? Sono
stipendi derivanti dalle leggi di mercato quelli assegnati ai
diversi manager alla guida delle strutture sub-regionali o di
società  parapubbliche? Consiglierei a Carnieri di far effettuare
dall’Aru una ricerca al riguardo. Sono certo che le sorprese non
mancheranno. Conosco poche imprese private in grado di pagare
certi salari ma posso sbagliare. E’ meglio una ricerca mirata.
Il segretario della federazione di Perugia del Pci negli anni
sessanta, settanta e ottanta aveva il trattamento previsto dal
contratto dei metalmeccanici, sesto livello se ricordo bene. Gli
amministratori eletti ad ogni livello, compresa la regione,
avevano lo stesso trattamento del lavoro precedente e una piccola
indennità  di”¦.cravatta. Paradigma vincolante era quello che con la
politica non si poteva cambiare la propria condizione sociale nè
diventare ricchi. Altri tempi si dirà . Ricordo che ogni fine anno,
l’amministratore del partito, chiedeva ai parlamentari una
sottoscrizione straordinaria per pagare gli stipendi ai
funzionari. Era esagerato quel meccanismo? Difficile rispondere.
La scomparsa delle ideologie significa necessariamente far sparire
completamente il valore dell’attività  politica come servizio alla
collettività ? Sembrerebbe evidente che una politica senza una
etica forte non può che allontanare la gente dalle classi
dirigenti. Non sarà  questa carenza a rendere fragili i partiti
politici?
Giuseppe Dozza è stato sindaco a Bologna per oltre venti anni. Non
era eletto direttamente dal popolo ma dal consiglio comunale.
Eppure è stato uno dei sindaci più popolari nella storia del
movimento democratico. Fu protagonista della ricostruzione di una
città  distrutta per il settanta per cento dalla guerra. Ma la sua
fama derivava anche da altro. Ad esempio, andava al lavoro in
bicicletta e quando si trovava a Roma in trasferta amministrativa
usava dividere i rimborsi spese tra partito e comune se oltre al
ministero passava per Botteghe Oscure. La sobrietà , l’etica, la
trasparenza amministrativa. Siamo certi che non siano ancora oggi
qualità  che il popolo apprezzerebbe?
Corriere dell’Umbria 24 luglio 2005

IL PARTITO DEI PRESIDENTI

Quando il futuro di una società  diventa incerto si è portati a
pensare a meccanismi salvifici. Certi slogan e certe parole
divengono abusati in tutti gli ambienti e in tutte le
conversazioni. Ad esempio si parla con un politico che ti spiega i
meriti dell’innovazione esattamente come può fare un imprenditore
o un dirigente pubblico. Poi quando si cerca di approfondire il
discorso il politico sfugge verso la critica a Berlusconi e/o
Prodi, l’imprenditore ti parla del costo del lavoro e il dirigente
dell’ultima stupidata dell’assessore al ramo.
L’innovazione sembra essere un po’ come il riformismo, troppo
frequentemente una vuota enunciazione del niente.
Tutti sono riformisti e tutti vogliono innovare senza spiegarti
cosa, perchè, come e con quale obbiettivo. Nessuno ti dice per
quale ragione dovresti essere entusiasta se il tuo lavoro da fisso
diviene precario o per quale motivo dovrebbe essere entusiasmante
il fatto che la farmacia comunale viene privatizzata a vantaggio
del Dottor Sempronio. Nessuno ci ha spiegato perchè da venti anni
è necessario per il ceto politico di destra, di centro e di
sinistra, cambiare una Costituzione, la nostra, che in tutto il
mondo è ritenuta avanzata e civile e il cui unico vero limite sta
nella sua non applicazione.
In realtà  dietro la sloganistica dell’innovazione e del riformismo
sembra esserci il vuoto assoluto. Prevalgono così le ricette
ideologiche della destra nonostante che l’intero mondo stia
subendo i limiti del liberismo selvaggio.
Nella pubblica amministrazione, ma non solo, non è facile
riformare. Per farlo bisogna rimettere in discussione poteri e
consuetudini radicati. Ricordo una violenta discussione negli anni
ottanta quando si tentò di modificare la forma enfatica di tutte
le strutture sub-regionali esistenti in quegli anni a partire
dalle comunità  montane. Non si riuscì a modificare molto per la
resistenza di apparati e di interessi particolari che il ceto
politico di allora non ebbe la forza di contrastare.
Negli anni novanta si impose la filosofia dell’aziendalizzazione e
brillò, per una sola estate, la dottrina della “regione leggera”.
Sarebbe interessante una ricerca che valuti i costi per la
pubblica amministrazione dei processi che hanno ridotto il ruolo
della politica nella gestione della cosa pubblica a vantaggio dei
manager e di una concezione economicista della presenza pubblica
nella società . Non si sa di quanto, ma certamente gli enti, le
agenzie e le aziende pubbliche sono aumentate ed i costi
gestionali sono esplosi. E il rapporto costi/benefici? Meglio non
parlarne. Dimostrare il contrario sarebbe impresa ardua. La strada
maestra è quella dell’innovazione nel modo di produrre servizi e
beni pubblici. Ne parlano tutti ma concretamente gli enfatizzati
processi innovativi sono realtà  marginali. Chi ci prova ad
innovare veramente si scontra con incrostazioni e privilegi
arcaici che la classi amministrativa e politica non riesce a
rimuovere. Da cosa dipende? Il sistema politico ha prodotto un
localismo arcaico che a sua volta costruisce califfati e feudi che
rendono vani gli sforzi di riforma della struttura pubblica. In
tutti i settori della nostra comunità  non abbiamo a che fare con
una classe dirigente composta da poderosi combattenti. Le stesse
forze sociali sembrano disinteressate ad un processo riformatore.
Anche se non mancano forti personalità  nella politica o nella
economia, il galleggiamento sembra essere l’arte preminente. Non
deve meravigliare l’attitudine della classe politica ad una sorta
di timore nei confronti delle burocrazie e dei manager. La
subalternità  della politica all’economia e l’aziendalizzazione di
tutto è un consolidato processo mondiale dal quale noi umbri non
siamo alieni.
Nonostante il potere politico stabile della sinistra e del centro
democratico, anche da noi prevale una concezione contabile
dell’intervento pubblico.
Forse bisognerà  incoraggiare i nostri dirigenti mostrando loro
realtà  che sembrano non conoscere o che sottovalutano.
Ad esempio, anche in Umbria esistono imprese che sarebbero capaci
di contribuire all’innovazione del sistema istituzionale,
economico e sociale dell’Umbria. Basterebbe aprire gli occhi e si
scoprirebbero imprese della nostra regione incentrate su giovani
che hanno idee e competenze adeguate alla bisogna e che già  oggi
competono, a livello nazionale, in gare e appalti di questo o
quell’ente o di società  private.
Necessiterebbe trovare il modo di accompagnare queste esperienze
nel loro processo di crescita partendo da una certezza: la
struttura pubblica ha bisogno di essere concretamente cambiata.
Nessun mercato protetto, ma disponibilità  a riformare veramente la
struttura amministrativa. Per farlo necessita trovare le risorse,
ma anche di motivare adeguatamente le forze sociali e gli apparati
degli addetti ai lavori. Da questo punto di vista il sistema
retributivo vigente nella pubblica amministrazione è semplicemente
paradossale. Lo scarto tra lo stipendio del livello più basso e
quello del dirigente è quanto di più disincentivante ci possa
essere.
Per cambiare le cose ci vuole molta capacità  politica e molta
disponibilità  a uscire dai meccanismi del consenso a tutti i
costi. Non guasterebbe una certa curiosità  a guardare fuori dai
confini del proprio ente e del proprio territorio. Nelle sue
dichiarazioni programmatiche la presidente Lorenzetti ha
sottolineato con giusta enfasi l’esigenza della riforma della
pubblica amministrazione. Tanti auguri. Come è noto anche da noi
il sindacato più forte è quello dei presidenti. Accorpare enti e
tagliare posti di comando è difficile quasi come evitare l’ultima
barzelletta di Berlusconi.
Corriere dell’Umbria 17 luglio 2005

AL CAPEZZALE DELL’ECONOMIA

Indagine dopo indagine, vengono in evidenza le difficoltà
dell’economia della nostra regione. Nel nuovo “Annuario economico
dell’Umbria”, presentato recentemente, si conferma il permanere
dei limiti strutturali delle imprese umbre: sottocapitalizzazione
e frantumazione. Aziende del terziario avanzato quantitativamente
ininfluenti non hanno modificato la tradizionale struttura delle
piccole imprese. Le diverse multinazionali presenti in Umbria si
esprimono soltanto come terminali produttivi senza alcuna
autonomia gestionale e quindi esposti a chiusure e
ridimensionamenti. Nessun canta più i meriti del piccolo è bello
proprio perché quel bello non riesce più a produrre ricchezza se
mai ne ha prodotta autonomamente anche nel passato. Non si è
riusciti a costruire “reti” imprenditoriali e i pochi distretti
settoriali non si sono consolidati negli anni ed oggi subiscono
feroci concorrenze nel mercato interno e internazionale.
Questi i caratteri dell’attuale sviluppo umbro. Nonostante anni e
anni di discussioni e di tentativi, a volte intelligenti, di
innovazione nell’intervento pubblico di sostegno allo sviluppo,
siamo anche noi dentro la crisi economica che caratterizza il
paese Italia. Potrebbe essere altrimenti? Nessuno può pensare che
di fronte ad un disastro delle dimensioni di quello che vive la
nostra nazione, una piccola comunità come è la nostra potesse
cavarsela. Bisogna però capire se tutto quello che si è fatto è
andato nella giusta direzione. Se cioè la politica e le
istituzioni hanno fatto il loro mestiere. Mancano, da parte del
sottoscritto, le competenze e manca lo spazio per una analisi
approfondita delle politiche regionali di questi anni. E’ forse
preferibile esemplificare.
A dispetto di un significativo utilizzo di fondi comunitari per la
formazione professionale, non si è riusciti a creare e consolidare
un’occupazione stabile. Ancora oggi la disoccupazione
intellettuale, assieme ad un tasso di attività femminile
inadeguato, caratterizza l’occupazione. Così che gran parte dei
laureati svolgono lavori sottopagati o emigrano dall’Umbria e
molte giovani donne non entrano nemmeno nel mercato del lavoro.
Non ci sarà un problema di come vengono utilizzate le risorse
comunitarie per la formazione? Se i risultati non sono stati
adeguati forse è il caso di introdurre qualche novità e andare un
poco oltre gli interventi di questi anni che notoriamente sono
stati, per così dire, diffusi come una pioggia primaverile. Al
riguardo sarebbe utile una valutazione del sindacato.
La discussione in consiglio regionale attorno al programma di
legislatura ha cercato di individuare i nodi da sciogliere per
innescare una nuova fase dello sviluppo. Al di là della qualità
dei diversi contributi, non sembra che siano maturate nel
centrosinistra idee innovative rispetto alla linea di
concertazione tra le parti sociali e istituzionali che va sotto il
titolo del Patto per lo sviluppo.
Non siamo per la novità per la novità. Non deve scandalizzare la
riproposta di una tesi che ha avuto il consenso di tanti e che ha
prodotto anch’essa il risultato elettorale positivo per la
coalizione guidata dalla Lorenzetti.
Il punto è che non sembra che i diversi “tavoli” istituiti con i
meccanismi del Patto siano stati in grado in questi anni di
attivare processi virtuosi nell’economia regionale. Sarebbe
pretestuoso pretendere già visibili innovazioni, ma almeno
intravedere l’inizio di un percorso potrebbe aiutare a rendere più
forte il meccanismo della concertazione.
L’impressione, sicuramente sbagliata, è quella che attorno alle
non ingenti risorse pubbliche disponibili per gli investimenti
produttivi, si accendono vivaci appetiti. Sono legittimi interessi
territoriali e sociali, ma spesso essi sollecitano risorse senza
mettere in campo proposte convincenti e di mezzi privati
aggiuntivi se ne vedono pochi. Un aggiornamento del pensiero
sindacale al riguardo aiuterebbe a capire meglio che cosa può
sollecitare “tavoli” più operativi.
Con una spesa pubblica per investimenti in caduta libera e con
fondi comunitari insufficienti a soddisfare esigenze diverse, il
Patto per lo sviluppo,al di là della forte passione della
presidente, rischia di tradursi in semplice espressione di volontà
politica.
Per fortuna e per capacità degli amministratori non siamo la
regione più indebitata d’Italia. Bene ha fatto l’assessore al ramo
nel precisare che il ministero del tesoro continua da tre anni a
commettere lo stesso errore imputando alla regione debiti che sono
dello stato. L’assessore ha portato i numeri e non resta, al
governo centrale, che confutarli o cambiare parere.
Meglio i numeri che ricercare nelle valutazioni delle società di
rating la conferma del proprio ben operare. Si potrebbe obbiettare
che sia la gigantesca corporate Enron che la multinazionale
Parmalat, nel loro ultimo anno prima della catastrofe, avevano
avuto i bilanci certificati e il loro rating molto soddisfacente.
Meglio portare i numeri che AAAA.
Corriere dell’Umbria 10 luglio 2005