Galleggiando non si supera la burrasca

Testuale: “L’Italia è un Paese ricco e benestante”¦In Italia siamo tanti playboy,
quindi i nostri ragazzi mandano almeno 10 sms al giorno alle loro ragazze”.
Dichiarazione di Berlusconi alla conferenza stampa di venerdì 27 maggio. Tony
Blair, presente all’avvenimento, ancora rintronato dai risultati elettorali inglesi,
rideva felice.
Una tragedia greca? No. Una tragedia italiana. Una catastrofe. E’ ormai ovvio
per tutti, anche per gli industriali, che l’economia italiana è disastrata. Sempre
più esplode la sindrome della quarta settimana del mese in cui molte famiglie
non riescono a far fronte alle esigenze primarie della sopravvivenza se non a
prezzo di enormi sacrifici. La cosa che impressiona di più è l’inerzia della
politica verso una situazione che richiede idee radicalmente diverse da quelle
che hanno portato all’impoverimento di vasti strati della popolazione. Queste
idee non c’è le ha nessuno. Così ci teniamo il Berlusconi dicitore di barzellette.
Il Berlusconi ridente non è una novità  e di ragioni per essere soddisfatto il
presidente del consiglio ne ha diverse. Ad esempio, il quotidiano della
confindustria, “il Sole 24 ore”, ha riportato l’ultima indagine della Nielsen sulla
spesa pubblicitaria in Italia. La ricerca dimostra che il novantasei per cento
della comunicazione della presidenza del consiglio (Berlusconi, quindi) è
trasmessa dalle reti Mediaset il cui padrone è, come noto, lo stesso cavaliere.
Conflitto d’interessi? Somiglia più al sistema degli interessi privati in atti
pubblici.
Nonostante che una legge impone che la comunicazione istituzionale sia
assegnata per il cinquanta per cento alla carta stampata, Palazzo Chigi la
svolge tutta attraverso le reti televisive di cui è proprietario l’inquilino del
palazzo.
Bisognerebbe indignarsi e reagire. Ma anche l’indignazione per avere un senso
richiede una sponda politica che oggi non c’è.
I partiti del centrosinistra sono impegnati in altre priorità .
Domanda: le ragioni della lacerazione tra Prodi e Rutelli sono comprensibili agli
elettori? No. Soltanto gli addetti ai lavori sono in grado di dare una lettura
politica allo scontro tra il mangiatore di cicoria e il professore bolognese. Gli
esperti ti spiegano che è una questione di collegi elettorali e di come si
vorrebbe ripartirli tra i partiti della Federazione dell’Ulivo.
La preoccupazione di Prodi è di assicurare all’eventuale (sempre più eventuale
se si continua così) governo di centrosinistra una stabilità  frutto anche di un
nucleo di prodiani di ferro.
La Margherita ha interessi diversi e alternativi? Che il partito di Rutelli sia un
pezzo essenziale dell’Ulivo è evidente, compiere atti che neghino questo è un
errore.
Il problema torna ad essere il listone unico della federazione dell’Ulivo.
Sperimentato due volte, alle Europee e alle regionali, ha dato risultati
contraddittori ed è certo che non è stato un boom elettorale. Anche alle
regionali le liste di partito (DS,Margherita,Sdi) hanno ottenuto più voti di quelli
della lista unica. Prodi insiste su questa soluzione organizzativa perchè porta
alla semplificazione del quadro politico ed ha il vantaggio di una unità  leggibile
da tutti. La Margherita sostiene che in questa fase è più utile salvaguardare
l’identità  partitica. La crisi del centrodestra libererà  forze moderate che
2
possono essere intercettate dal partito dell’ex radicale e di Ciriaco De Mita. Se
si riformasse un grande centro stile vecchia DC non sarebbe male. Si può
affermare che è meglio morire democristiani che berlusconiani? Sì, a patto che
il tempo non abbia trasformato tanti dirigenti in un ibrido politico che
compendia il peggio della DC e il berlusconismo. Nomi non se ne fanno per
educazione, ma l’ibrido è già  ben radicato nel ceto politico. Una certa diffidenza
è legittima: il trasformismo è una malattia endemica della politica italiana.
Malattia che sembrava scomparsa nella vituperata prima repubblica e che è
esplosa prepotente in quella attuale in cui, non a caso, dominano sistemi
elettorali che somigliano a quello della fine del secolo diciottesimo. Il
trasformismo è un antico vizio delle classi dirigenti italiane ed è noto che, a
parte lodevoli eccezioni, il ceto politico dominante non è che brilli per rigore e
disinteresse personale. La politica è divenuta un mestiere come un altro con
percorsi di carriera che possono essere sveltiti attraverso giravolte e cambi di
maglia ben remunerati e prestigiosi. Basta avere un buon patronage e il futuro
diviene radioso anche per i familiari più stretti.
Fare previsioni su come riuscirà  il centrosinistra a recuperare un’immagine di
serietà  non è semplice. Aiuterebbe certamente se, dalle diatribe personali, si
passasse ad affrontare i problemi che interessano la gente. Bisognerà  che
prima o poi Prodi e compagnia ci dicano come intenderebbero affrontare le
emergenze del Paese. Non con generici programmi, ciò che serve sono poche
chiare idee che abbiano la forza e il valore di indicare un percorso alternativo al
berlusconismo.
Ognuno deve fare la sua parte e, ad ogni livello anche in Umbria, c’è bisogno
che si esca dal galleggiamento amministrativo: il mare è parecchio in burrasca,
galleggiare non sarà  possibile. La caduta dei trasferimenti centrali se unita alla
scarsità  di idee, renderà  l’amministrare molto difficile. La pigrizia o l’arroganza
non aiuteranno.
Corriere dell’Umbria 29 maggio 2005

Americanismo all’italiana

Non è una novità il fatto che la redazione di Micropolis non abbia
alcuna simpatia politica per Rutelli. Più volte abbiamo scritto
che l’ex radicale avrebbe fatto meglio a scomparire dalla scena
politica dopo la sconfitta subita alle elezioni politiche del 2001.
Purtroppo il ceto dirigente italiano è quello che è. Rutelli ha un
sogno: costruire il partito democratico. Propugna la democrazia
americana, ma non ne applica la regola fondamentale: chi perde
alle elezioni va a casa. Così è stato per Al Gore e da ultimo per
l’inconsistente Kerry. Il nostro continua a sacrificarsi per il
bene di tutti noi.
Rutelli è una dell’espressioni del trasformismo italiano. Ciò che
propone Rutelli non può che sollecitare la nostra più profonda
avversione politica. Detto tutto il male possibile del leader
della Margherita, ci sentiamo in dovere di affermare che la
responsabilità del disastro, che sta annichilendo il popolo del
centrosinistra, è anche di chi ha voluto inventarsi il listone e
la federazione dei riformisti e di chi, sperando in un tornaconto
elettorale che non c’è stato, non ha denunciato l’errore compiuto
da Prodi e Fassino. Ogni riferimento a Rifondazione è puramente
casuale.
Le giravolte rutelliane sono state possibili grazie ad un sistema
politico che premia le oligarchie e le oligarchie non sono
espressione soltanto dei riformisti. Sono il modo di essere di
tutta la classe dirigente politica in campo.
I partiti si sono trasformati in strutture a-democratiche al
servizio della carriera amministrativa dei miracolati di
Berlusconi: un ceto inossidabile e inattaccabile nella sua
insaziabilità di prebende e incarichi. Dietro la bandiera onorata
della identità di partito si nasconde la merce avariata della
spartizione di collegi elettorali e di posti ben pagati nella
struttura pubblica. Trovare un qualche residuo di identità in
raggruppamenti informi come i partiti attuali è impresa vana.
Prevale il vaniloquio sul riformismo.
In questi anni non c’è stata alcuna seria iniziativa volta a
combattere la deriva della democrazia rappresentativa italiana.
La stessa debole discussione attorno ai nodi del programma
dell’Unione per il futuro governo del Paese non ha mai contenuto
la questione della qualità del sistema politico consolidatosi in
questi anni. La leaderite acuta rimane la malattia infantile della
politica e il sistema maggioritario la bibbia dei fondamentalisti
dell’americanizzazione all’italiana.
Ne abbiamo avuto un piccolo esempio in Umbria nella discussione
dello statuto regionale. L’iper presidenzialismo previsto è stato
denunciato soltanto fuori delle aule di Palazzo Cesaroni da voci
flebili come la nostra. L’opposizione di Rifondazione ha ricordato
l’opposizione di sua maestà, senza lasciare il minimo segno
politico. La decisione della presidente di promulgare lo statuto a
prescindere da tutte le osservazioni di opportunità tecnica e
politica, non ha trovato contrarietà nelle componenti dell’Unione.
Le ultime vicende dell’elezione degli organi di direzione del
consiglio regionale hanno dimostrato come l’appetito dei partiti
2
riformisti o della sinistra alternativa sia senza fondo. Si è
trattato di un vero arrembaggio all’incarico. Un assalto all’arma
bianca che ha determinato la scelta di costituire sette
commissioni permanenti per trenta consiglieri regionali.
Scandaloso è il minimo che si può dire. Conoscendo il movimento
legislativo della Regione Umbra degli ultimi dieci anni, siamo
certi che il sindacato dei presidenti non potrà rivendicare alcun
premio di produttività. Ci sarà risparmiato un qualche tiket a
copertura della spesa.
I feudatari piccoli e grandi sono stati tutti soddisfatti. Una
sistemazione non è stata negata a nessuno. La mitica “regione
leggera” degli anni ‘90 si va consolidando in una struttura
burocratica elefantiaca per staff e consulenze varie. La spesa per
la gestione degli amministratori cresce come il buco del bilancio
dello Stato senza alcun controllo da parte di alcuno.
L’opinione pubblica ci sembra annichilita e sempre più lontana
dalla politica, ma questo è un parere ininfluente. Lunga vita a
Berlusconi, gridano i leader gli amministratori umbri baciati
dalla fortuna. Fin che c’è Lui non ci tocca nessuno, dicono
sottovoce.
Micropolis maggio 2005

Americanismo all’italiana

Non è una novità  il fatto che la redazione di Micropolis non abbia
alcuna simpatia politica per Rutelli. Più volte abbiamo scritto
che l’ex radicale avrebbe fatto meglio a scomparire dalla scena
politica dopo la sconfitta subita alle elezioni politiche del 2001.
Purtroppo il ceto dirigente italiano è quello che è. Rutelli ha un
sogno: costruire il partito democratico. Propugna la democrazia
americana, ma non ne applica la regola fondamentale: chi perde
alle elezioni va a casa. Così è stato per Al Gore e da ultimo per
l’inconsistente Kerry. Il nostro continua a sacrificarsi per il
bene di tutti noi.
Rutelli è una dell’espressioni del trasformismo italiano. Ciò che
propone Rutelli non può che sollecitare la nostra più profonda
avversione politica. Detto tutto il male possibile del leader
della Margherita, ci sentiamo in dovere di affermare che la
responsabilità  del disastro, che sta annichilendo il popolo del
centrosinistra, è anche di chi ha voluto inventarsi il listone e
la federazione dei riformisti e di chi, sperando in un tornaconto
elettorale che non c’è stato, non ha denunciato l’errore compiuto
da Prodi e Fassino. Ogni riferimento a Rifondazione è puramente
casuale.
Le giravolte rutelliane sono state possibili grazie ad un sistema
politico che premia le oligarchie e le oligarchie non sono
espressione soltanto dei riformisti. Sono il modo di essere di
tutta la classe dirigente politica in campo.
I partiti si sono trasformati in strutture a-democratiche al
servizio della carriera amministrativa dei miracolati di
Berlusconi: un ceto inossidabile e inattaccabile nella sua
insaziabilità  di prebende e incarichi. Dietro la bandiera onorata
della identità  di partito si nasconde la merce avariata della
spartizione di collegi elettorali e di posti ben pagati nella
struttura pubblica. Trovare un qualche residuo di identità  in
raggruppamenti informi come i partiti attuali è impresa vana.
Prevale il vaniloquio sul riformismo.
In questi anni non c’è stata alcuna seria iniziativa volta a
combattere la deriva della democrazia rappresentativa italiana.
La stessa debole discussione attorno ai nodi del programma
dell’Unione per il futuro governo del Paese non ha mai contenuto
la questione della qualità  del sistema politico consolidatosi in
questi anni. La leaderite acuta rimane la malattia infantile della
politica e il sistema maggioritario la bibbia dei fondamentalisti
dell’americanizzazione all’italiana.
Ne abbiamo avuto un piccolo esempio in Umbria nella discussione
dello statuto regionale. L’iper presidenzialismo previsto è stato
denunciato soltanto fuori delle aule di Palazzo Cesaroni da voci
flebili come la nostra. L’opposizione di Rifondazione ha ricordato
l’opposizione di sua maestà , senza lasciare il minimo segno
politico. La decisione della presidente di promulgare lo statuto a
prescindere da tutte le osservazioni di opportunità  tecnica e
politica, non ha trovato contrarietà  nelle componenti dell’Unione.
Le ultime vicende dell’elezione degli organi di direzione del
consiglio regionale hanno dimostrato come l’appetito dei partiti
2
riformisti o della sinistra alternativa sia senza fondo. Si è
trattato di un vero arrembaggio all’incarico. Un assalto all’arma
bianca che ha determinato la scelta di costituire sette
commissioni permanenti per trenta consiglieri regionali.
Scandaloso è il minimo che si può dire. Conoscendo il movimento
legislativo della Regione Umbra degli ultimi dieci anni, siamo
certi che il sindacato dei presidenti non potrà  rivendicare alcun
premio di produttività . Ci sarà  risparmiato un qualche tiket a
copertura della spesa.
I feudatari piccoli e grandi sono stati tutti soddisfatti. Una
sistemazione non è stata negata a nessuno. La mitica “regione
leggera” degli anni “˜90 si va consolidando in una struttura
burocratica elefantiaca per staff e consulenze varie. La spesa per
la gestione degli amministratori cresce come il buco del bilancio
dello Stato senza alcun controllo da parte di alcuno.
L’opinione pubblica ci sembra annichilita e sempre più lontana
dalla politica, ma questo è un parere ininfluente. Lunga vita a
Berlusconi, gridano i leader gli amministratori umbri baciati
dalla fortuna. Fin che c’è Lui non ci tocca nessuno, dicono
sottovoce.
Micropolis maggio 2005

LA MOLTIPLICAZIONE DELLE POLTRONE E IL GRIDO D’ALLARME DELL’ECONOMIA

Un suicidio. Questa è stata la definizione di Prodi alla decisione della
Margherita di non accettare la lista unica per le prossime elezioni politiche. Ha
ragione Prodi o ha ragione Rutelli? Sommessamente si può tranquillamente
affermare che hanno tutte e due torto. Prodi ha voluto, assieme a Fassino e
company, forzare la mano per le elezioni regionali imponendo uno schema che
ingabbiava in una sola lista i diversi partiti del centrosinistra. Non tutti però, ad
iniziare dai rutelliani, erano convinti che la federazione dell’Ulivo dovesse
muoversi a realizzare un partito che comprendesse De Mita e Fabio Mussi.
Il risultato elettorale del listone è stato positivo? Sì, ma anche dove i partiti
dell’Ulivo si sono presentati con propri simboli Berlusconi è stato battuto alla
grande. La spinta anti cavaliere di Arcore è stata così forte da provocare la
disfatta del centrodestra in quasi tutte le regioni al di là delle soluzioni
“organizzative” che Fassino o Rutelli volevano.
E’ vero che si è consolidata nel senso comune del popolo dell’Ulivo l’idea che
bisogna essere uniti. E’ questo che importa alla gente e non le beghe del ceto
politico. Non rispondere a questa esigenza sarebbe catastrofico.
Il problema dell’unità delle forze contrarie al centrodestra è un problema reale:
la sconfitta nelle elezioni politiche del 2001 è dovuta anche alla divisione tra
Ulivo e Rifondazione. E i risultati di quella divisione li sta pagando il Paese.
Il problema è quale unità costruire. Si può essere uniti anche in una coalizione
o bisogna federarsi o stare in un unico partito dei riformisti? Ai posteri l’ardua
sentenza. Per intanto risulta evidente che la scelta di costruire il partito dei
riformisti è stata una opzione tutta ideologica. E l’ideologia come ci è stato
spiegato da saggi riformisti non è cosa buona. E’ l’esigenza della salvaguardia
delle identità di partito che ha guidato la scelta di Rutelli a rompere il progetto
prodiano della lista dell’Ulivo? Gli addetti ai lavori dicono di no. D’altra parte è
difficile riconoscere una qualche identità in partiti costruiti da un ceto politico di
provenienze articolate e che, a partire dal nome “botanico”, sono il massimo
della genericità politica. Sembra più convincente un’altra spiegazione alle
scelte dell’ex radicale. Non sarà un problema di salvaguardia del ceto politico
margheritiano? In questi mesi si è consolidato un rapporto molto forte tra i
diesse e Prodi. Si sostiene che il professore voleva la certezza che nel nuovo
parlamento ci fosse un bel gruppo di parlamentari prodiani D.O.C. e aveva
chiesto garanzie ai diessini. Quaranta deputati e trenta senatori, così scrivono i
giornali, scelti direttamente da Prodi a prescindere dai desiderata della
Margherita. Quando si tratta di collegi sicuri e di posti da ministro,
sottosegretario, assessore, presidente di commissione scatta la molla della
identità e della pari dignità dei partiti.
E tra minacce e lusinghe viene sollecitato l’orgoglio di appartenenza e a quel
punto non si scherza più: i clientes devono essere soddisfatti nella loro carriera
politica e la lotta si fa dura senza paura a prescindere da ciò che pensa
l’opinione pubblica.
La fase politica che attraversiamo somiglia ad una commedia all’italiana.
Purtroppo la sceneggiatura non è di Age e Scarpelli e la regia non è di Monicelli.
Di questa commedia ne abbiamo avuto esperienza anche in Umbria.
2
Il consiglio regionale ha eletto i propri organi e così si è soddisfatta anche la
voracità dei partiti umbri per l’occupazione delle sedie e degli strapuntini.
Siamo creativi e così ci siamo inventati, per una assemblea di trenta membri,
una ripartizione in sette commissioni permanenti. Con sette presidenti, sette
segreterie, sette dirigenti, sette di tutto. Visto l’intenso processo legislativo
degli ultimi dieci anni, abbiamo la certezza che ai consiglieri regionali rimarrà
molto tempo per consolidare il loro rapporto con i propri elettori e avranno
anche modo di approfondire i problemi della nostra terra e trovare le giuste
soluzioni. Non sarà facile.
Secondo un’indagine della CGIL del perugino, la situazione economico sociale
del territorio è pessima. Aumento del lavoro precario e nuove forme di povertà
che riguardano fette consistenti della popolazione. Che il sindacato umbro
presenti un quadro così allarmante è in parte una novità. Che fare? Siamo in
una fase di grave recessione e la spesa pubblica per gli investimenti e per il
sociale subisce forti ridimensionamenti. Con un governo come quello attuale è
difficile che da Roma giungano stimoli e risorse per affrontare i nostri problemi.
Lo sforzo per individuare i nodi da sciogliere deve essere fatto dalla classe
dirigente umbra in tutte le sue componenti.
E’ stato chiesto al Ministro Siniscalco di fare un’operazione di verità, ma
nonostante l’impegno preso il “tecnico” ha preferito farfugliare giustificazioni al
disastro prodotto dalle politiche economiche del governo Berlusconi.
Diamo un esempio noi umbri. Facciamolo noi un discorso veritiero sullo stato
della nostra economia. Le elezioni ci sono state. Ognuno ha avuto la propria
sistemazione in consiglio regionale o in qualche ente pubblico. Si può adesso
pretendere dal ceto politico un’accelerazione nel lavoro amministrativo e
legislativo a vantaggio del bene comune?
Corriere dell’Umbria 22 maggio 2005

LA MOLTIPLICAZIONE DELLE POLTRONE E IL GRIDO D’ALLARME DELL’ECONOMIA

Un suicidio. Questa è stata la definizione di Prodi alla decisione della
Margherita di non accettare la lista unica per le prossime elezioni politiche. Ha
ragione Prodi o ha ragione Rutelli? Sommessamente si può tranquillamente
affermare che hanno tutte e due torto. Prodi ha voluto, assieme a Fassino e
company, forzare la mano per le elezioni regionali imponendo uno schema che
ingabbiava in una sola lista i diversi partiti del centrosinistra. Non tutti però, ad
iniziare dai rutelliani, erano convinti che la federazione dell’Ulivo dovesse
muoversi a realizzare un partito che comprendesse De Mita e Fabio Mussi.
Il risultato elettorale del listone è stato positivo? Sì, ma anche dove i partiti
dell’Ulivo si sono presentati con propri simboli Berlusconi è stato battuto alla
grande. La spinta anti cavaliere di Arcore è stata così forte da provocare la
disfatta del centrodestra in quasi tutte le regioni al di là  delle soluzioni
“organizzative” che Fassino o Rutelli volevano.
E’ vero che si è consolidata nel senso comune del popolo dell’Ulivo l’idea che
bisogna essere uniti. E’ questo che importa alla gente e non le beghe del ceto
politico. Non rispondere a questa esigenza sarebbe catastrofico.
Il problema dell’unità  delle forze contrarie al centrodestra è un problema reale:
la sconfitta nelle elezioni politiche del 2001 è dovuta anche alla divisione tra
Ulivo e Rifondazione. E i risultati di quella divisione li sta pagando il Paese.
Il problema è quale unità  costruire. Si può essere uniti anche in una coalizione
o bisogna federarsi o stare in un unico partito dei riformisti? Ai posteri l’ardua
sentenza. Per intanto risulta evidente che la scelta di costruire il partito dei
riformisti è stata una opzione tutta ideologica. E l’ideologia come ci è stato
spiegato da saggi riformisti non è cosa buona. E’ l’esigenza della salvaguardia
delle identità  di partito che ha guidato la scelta di Rutelli a rompere il progetto
prodiano della lista dell’Ulivo? Gli addetti ai lavori dicono di no. D’altra parte è
difficile riconoscere una qualche identità  in partiti costruiti da un ceto politico di
provenienze articolate e che, a partire dal nome “botanico”, sono il massimo
della genericità  politica. Sembra più convincente un’altra spiegazione alle
scelte dell’ex radicale. Non sarà  un problema di salvaguardia del ceto politico
margheritiano? In questi mesi si è consolidato un rapporto molto forte tra i
diesse e Prodi. Si sostiene che il professore voleva la certezza che nel nuovo
parlamento ci fosse un bel gruppo di parlamentari prodiani D.O.C. e aveva
chiesto garanzie ai diessini. Quaranta deputati e trenta senatori, così scrivono i
giornali, scelti direttamente da Prodi a prescindere dai desiderata della
Margherita. Quando si tratta di collegi sicuri e di posti da ministro,
sottosegretario, assessore, presidente di commissione scatta la molla della
identità  e della pari dignità  dei partiti.
E tra minacce e lusinghe viene sollecitato l’orgoglio di appartenenza e a quel
punto non si scherza più: i clientes devono essere soddisfatti nella loro carriera
politica e la lotta si fa dura senza paura a prescindere da ciò che pensa
l’opinione pubblica.
La fase politica che attraversiamo somiglia ad una commedia all’italiana.
Purtroppo la sceneggiatura non è di Age e Scarpelli e la regia non è di Monicelli.
Di questa commedia ne abbiamo avuto esperienza anche in Umbria.
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Il consiglio regionale ha eletto i propri organi e così si è soddisfatta anche la
voracità  dei partiti umbri per l’occupazione delle sedie e degli strapuntini.
Siamo creativi e così ci siamo inventati, per una assemblea di trenta membri,
una ripartizione in sette commissioni permanenti. Con sette presidenti, sette
segreterie, sette dirigenti, sette di tutto. Visto l’intenso processo legislativo
degli ultimi dieci anni, abbiamo la certezza che ai consiglieri regionali rimarrà 
molto tempo per consolidare il loro rapporto con i propri elettori e avranno
anche modo di approfondire i problemi della nostra terra e trovare le giuste
soluzioni. Non sarà  facile.
Secondo un’indagine della CGIL del perugino, la situazione economico sociale
del territorio è pessima. Aumento del lavoro precario e nuove forme di povertà 
che riguardano fette consistenti della popolazione. Che il sindacato umbro
presenti un quadro così allarmante è in parte una novità . Che fare? Siamo in
una fase di grave recessione e la spesa pubblica per gli investimenti e per il
sociale subisce forti ridimensionamenti. Con un governo come quello attuale è
difficile che da Roma giungano stimoli e risorse per affrontare i nostri problemi.
Lo sforzo per individuare i nodi da sciogliere deve essere fatto dalla classe
dirigente umbra in tutte le sue componenti.
E’ stato chiesto al Ministro Siniscalco di fare un’operazione di verità , ma
nonostante l’impegno preso il “tecnico” ha preferito farfugliare giustificazioni al
disastro prodotto dalle politiche economiche del governo Berlusconi.
Diamo un esempio noi umbri. Facciamolo noi un discorso veritiero sullo stato
della nostra economia. Le elezioni ci sono state. Ognuno ha avuto la propria
sistemazione in consiglio regionale o in qualche ente pubblico. Si può adesso
pretendere dal ceto politico un’accelerazione nel lavoro amministrativo e
legislativo a vantaggio del bene comune?
Corriere dell’Umbria 22 maggio 2005